Sono ormai passati definitivamente i tempi in cui, una volta entrati in un ristorante di medio calibro ed effettuata la "comanda", ci si trovava di fronte alla più classica delle domande poste dal solerte cameriere di turno, circa la scelta del vino: "bianco o rosso?".
L'Italia enologica, l'antica Enotria, è finalmente uscita dal pantano nel quale vari condizionamenti storici, politici e soprattutto culturali l'avevano costretta. Sono stati fatti enormi passi avanti, qualitativamente, nei lavori in vigna, nelle nuove concezioni delle cantine, si è ricorsi a enologi che il mondo ci chiede e ci invidia, sono stati compiuti studi maniacali sulla composizione di un'etichetta, il marketing la fa da padrone nella lunga filiera che porta la bottiglia in tavola.
Non dobbiamo più litigare con i viticoltori francesi che a Sète assalirono le nostre navi cariche di robusti vini del nostro sud, destinati ad irrobustire quelli d'Oltralpe; il metanolo è un ricordo doloroso, ma lontano anche se i suoi effetti devastanti sulla nostra identità e dignità enoiche sono stati pari alle conseguenze negative che "Le mie prigioni" del Pellico hanno avuto sull'oppressione austriaca nei nostri territori.
Ci sono sì state delle "ricadute" quali i falsi di Sassicaia o i Brunelli del 2003 su cui si sono avute parecchie perplessità quanto ad integrità dell'uvaggio fissato dal Disciplinare, ma si è trattato fortunatamente di episodi che non hanno frenato la nostra crescita qualitativa e non hanno soprattutto riportato indietro di decenni il modo di ragionare e di agire dei nostri produttori.
Dato per scontato ed acquisito quanto sopra, tenendo sempre in debito e rigoroso conto il fatto che si tratta di opinioni del tutto personali e soggettive di un semplice appassionato, sono parzialmente d'accordo con chi sostiene la tesi che il percorso della bottiglia, una volta pronta e matura per la commercializzazione, ha anch'esso goduto ed usufruito dei netti miglioramenti di cui sopra. Dico parzialmente perché mi pare si possa ragionevolmente affermare che, entrare oggi nel classico medio ristorante italiano, in una qualsiasi località, in un giorno anonimo della settimana, pone chiunque di noi di fronte ad alcune considerazioni .
Il vino, lo si sa bene ed è universalmente accettato, ha dei "nemici" quali la temperatura non adeguata, gli odori, i rumori e le vibrazioni, l'esposizione ad una luce concentrata ed eccessiva, tanto per elencare i più classici e conosciuti. Ebbene, nella maggior parte dei nostri amati ristoranti, entrati in sala, ci si trova quasi sempre di fronte ad una bella famigliola di bottiglie poste su mensole, su basi di camini o comunque in altri luoghi che certamente non le dovrebbero ospitare. Tutte rigorosamente in posizione verticale a farsi compagnia come bei soldatini di piombo, pronte ad essere tolte dalla loro inidonea condizione dal cameriere che provvederà trionfalmente a portarle in tavola: uno sventurato brunello od un nobile barolo vengono così serviti a temperature assurde e perdono parte delle loro caratteristiche organolettiche, ove le stesse avessero avuto la ventura di conservarsi dopo mesi-almeno-di alloggio forzato.
Analoga sorte, seppure un tantino migliore subiscono i bianchi. Per evitare le giuste lamentele dei clienti sulle temperature spesso superiori a quelle di servizio, i vini vengono "abbattuti" violentemente, quando non posti in frigoriferi o luoghi similari che dovrebbero ovviare rapidamente al "danno". Più spesso li si porta a tavola alla temperatura in cui si trovano, li si affoga nel ghiaccio e sale dei cestelli e si invita il consumatore ad....aspettare. Le cantinette frigorifere sono poche, di bassa qualità e poco utilizzate, spesso poco capienti in rapporto al numero di etichette proposte, sì che la prima bottiglia scelta sarà a temperatura ideale, ma la seconda, per chi volesse fare un bis, risentirebbe sicuramente dei problemi di cui sopra.
Altra nota dolente riguarda la carta dei vini, croce e delizia per chi desideri mettere in pratica il cambiamento cui accennavo all'inizio di questa nota. La stessa lavora in sinergia, ove sia presente, con il sommelier o comunque con chi si occupa in maniera più specifica dell'elemento vino.
Bisogna riconoscere la validità di una figura come quella del sommelier, che dovrebbe intelligentemente e garbatamente guidarci in un mondo complesso ed articolato: la scelta o meno di un vino dipende da molti fattori, spesso legati fra di loro, non ultimo da quello economico. Trovo invece, purtroppo, che ci si trovi spesso ad avere a che fare con personaggi un tantino altezzosi, che tendano a schiacciarci con le loro conoscenze specifiche e che ci mettano in difficoltà nella scelta, spesso condizionata dalla fretta e dall'imbarazzo.
Per quanto mi riguarda, quando ne vedo la necessità, applico la tecnica napoleonica che voleva essere l'attacco la migliore forma di difesa, tiro fuori facilmente un po' della mia innata cattiveria ed inizio a fare notare gli inevitabili errori presenti in ogni carta di vini. Quasi tutte contengono una buona dose di accenti sbagliati, soprattutto per i vini esteri, quasi tutte hanno qualche trascrizione inesatta relativa al vitigno che compone il vino o al vino stesso. Spesso sono presenti vini di grande pregio, ma la loro presenza è solo virtuale: non appena li si nomina risultano stranamente esauriti il giorno prima. Per non parlare delle annate, uno degli elementi fondanti delle carte: è raro trovare l'annata richiesta quando ne siano presenti più di una.
Se poi voglio essere più cattivo del solito, mi piace entrare in meandri pericolosi, ovviamente più per me che per il sommelier, con la particolarità che forse riesco a non fare trapelare la mia ignoranza o la mia conoscenza superficiale su quell'argomento specifico.
Ricordo di avere fatto un figurone chiedendo lumi sulle differenze strutturali fra un carmenère cileno ed il più nostrano "Carmenero" di Ca' del Bosco. Perché le querce europee devono essere abbattute a colpi di scure a differenza delle querce bianche americane, che devono invece essere segate? Perché le ostriche che i francesi chiamano creuses vogliono un agrumato e fresco muscadet de la Loire(Melon de Bourgogne), mentre per le più nobili belon bisognerà ricorrere al più classico degli abbinamenti e cioè ad uno champagne, meglio se ad un Blanc de Blancs? Perché la povera e dimenticata Tintilia, unico vitigno autoctono del Molise, è stata per troppo tempo imparentato erroneamente con il Bovale sardo?
La verità, a mio parere, è che il vino è ormai diventato un elemento fondamentale per un ristorante che voglia essere tale; non è più un semplice accessorio relegato in secondo piano rispetto al cibo e la carta dei vini, il modo e la maniera di servirli e di offrirli alla clientela - sempre più attenta - richiedono un'attenzione ed una accortezza che non è di tutti.
Oramai sono in tanti, sempre più numerosi, coloro che scelgono un ristorante invece di un altro anche per la presenza o meno di quelle che ritengo essere scelte ineludibili e non più procrastinabili a favore del nostro amico Allora sì, bianco o rosso non sarà più - ragionevolmente - determinante.
mercoledì 19 ottobre 2011
lunedì 10 ottobre 2011
Una favola italo-colombiana
C'era una volta, anzi, c'erano una volta un padre ed una madre che vivevano (felici?) in un piccolo paese dell'Italia di oggi. I nostri avevano una figlia cui volevano tanto bene; lei aspettava il suo principe azzurro, come in tutte le favole che si rispettino. Anche i due genitori avrebbero avuto piacere che fosse arrivato il famoso principe. Lui in effetti arrivò, ma da molto lontano e la portò molto lontano, in un posto chiamato Colombia.
I nostri due amici, superato il primo ovvio momento di smarrimento, riuscirono parzialmente a riprendere il governo dei propri sentimenti e delle proprie pulsioni e pensarono bene di andare a trovare la loro principessa.
Come Totò e Peppino, attraversarono l'Alto Adige, valicarono il vasto mare Oceano ed arrivarono finalmente a destinazione. Si ritrovarono in una città chiamata Medellìn.......Il suo nome incuteva loro una certa paura perché riportava alla loro mente situazioni ed episodi drammatici e pericolosi! I due si fecero però coraggio a vicenda, felici di rivedere la figlia ed il suo sorriso radioso e rassicurante e partirono dall'aeroporto alla volta della città, aiutati anche dalla presenza di una bella giornata di sole e da un clima più che mite. Il percorso in taxi confermò nella mente dei genitori il concetto sempre valido che vuole che si debbano trovare usanze diverse in ogni paese in cui ci si trovi e soprattutto che sia bene accettarle di buon grado.
I due infatti erano sì maturi ed un po' spaesati, ma mantenevano una discreta capacità analitica che derivava loro dal sapere usare in maniera almeno sufficiente i loro cervelli: alcune cose parvero loro essere almeno bizzarre, alcuni comportamenti umani sembrarono dettati da meccanismi e logiche strane.
Comunque i due giunsero felicemente in centro, o quanto meno a destinazione; superarono brillantemente anche un momento di difficoltà derivante dalle motivazioni appena addotte e si impadronirono finalmente dell'agognato appartamento nel quale avrebbero vissuto un mesetto con la loro principessa.
La figlia aveva fatto l'impossibile per far sì che tutto fosse pronto e conveniente, soprattutto in considerazione delle problematiche caratteriali- per usare un eufemismo- del di lei genitore; si percepiva chiaramente che stava vivendo un momento difficile, momento che avrebbe potuto portare tempeste e fulmini.
I due, o meglio, i tre si accorsero che dal cielo, il Padre Eterno si era un momento dedicato particolarmente
a loro ed era intervenuto in loro soccorso; i nostri eroi si fecero volentieri aiutare ed il temporale fu evitato e allontanato.
L'appartamento era carino, concepito un po' differentemente quanto a divisione ed utilizzo degli spazi, sempre ovviamente rispetto al vissuto dei due anziani genitori. In compenso offriva un insieme di suoni, di luci, di atmosfere che portarono i due a fermarsi un attimo a pensare e.....si sa che il cervello umano è spesso più veloce di molti sciocchi computer, sempre che si intenda dare alla parole veloce una valenza umana.
Le necessità impellenti riportarono sulla terra i due che cercarono, aiutati dalla principessa, di personalizzare gli ambienti, mettendo in atto la prima e più elementare forma di difesa di chi si trova lontano da cose, abitudini, mentalità che non sono proprie.
La casa infatti diventò un po'più casa anche perché, nel frattempo, i nostri avevano pensato di riempirla di cibarie ed i loro stomaci sazi avevano trasmetto gioia e fiducia ai loro cuori in tempesta.
Giunse la sera di un lungo giorno, ricco di emozioni, di un lungo giorno nel corso del quale i loro occhi ed i loro cuori erano stati spennellati con varie mani di vernici di molti colori. Giunse la sera e la loro figlia tornò nel piccolo appartamento: con l'aiuto di tutto e di tutti si ricreò un'atmosfera particolare quale i tre non vivevano da molti anni. Non si parlò tanto ed intensamente di quel fenomeno meravigliosamente strano, anche se i tre si portarono a lungo nella propria personale valigia dei ricordi e delle sensazioni quello che hanno provato in quel particolare momento. Scese la notte ed i tre dormirono. Pare essere la cosa più facile e naturale del mondo, ma per uno dei tre fu veramente una bella notte.
I nostri due amici, superato il primo ovvio momento di smarrimento, riuscirono parzialmente a riprendere il governo dei propri sentimenti e delle proprie pulsioni e pensarono bene di andare a trovare la loro principessa.
Come Totò e Peppino, attraversarono l'Alto Adige, valicarono il vasto mare Oceano ed arrivarono finalmente a destinazione. Si ritrovarono in una città chiamata Medellìn.......Il suo nome incuteva loro una certa paura perché riportava alla loro mente situazioni ed episodi drammatici e pericolosi! I due si fecero però coraggio a vicenda, felici di rivedere la figlia ed il suo sorriso radioso e rassicurante e partirono dall'aeroporto alla volta della città, aiutati anche dalla presenza di una bella giornata di sole e da un clima più che mite. Il percorso in taxi confermò nella mente dei genitori il concetto sempre valido che vuole che si debbano trovare usanze diverse in ogni paese in cui ci si trovi e soprattutto che sia bene accettarle di buon grado.
I due infatti erano sì maturi ed un po' spaesati, ma mantenevano una discreta capacità analitica che derivava loro dal sapere usare in maniera almeno sufficiente i loro cervelli: alcune cose parvero loro essere almeno bizzarre, alcuni comportamenti umani sembrarono dettati da meccanismi e logiche strane.
Comunque i due giunsero felicemente in centro, o quanto meno a destinazione; superarono brillantemente anche un momento di difficoltà derivante dalle motivazioni appena addotte e si impadronirono finalmente dell'agognato appartamento nel quale avrebbero vissuto un mesetto con la loro principessa.
La figlia aveva fatto l'impossibile per far sì che tutto fosse pronto e conveniente, soprattutto in considerazione delle problematiche caratteriali- per usare un eufemismo- del di lei genitore; si percepiva chiaramente che stava vivendo un momento difficile, momento che avrebbe potuto portare tempeste e fulmini.
I due, o meglio, i tre si accorsero che dal cielo, il Padre Eterno si era un momento dedicato particolarmente
a loro ed era intervenuto in loro soccorso; i nostri eroi si fecero volentieri aiutare ed il temporale fu evitato e allontanato.
L'appartamento era carino, concepito un po' differentemente quanto a divisione ed utilizzo degli spazi, sempre ovviamente rispetto al vissuto dei due anziani genitori. In compenso offriva un insieme di suoni, di luci, di atmosfere che portarono i due a fermarsi un attimo a pensare e.....si sa che il cervello umano è spesso più veloce di molti sciocchi computer, sempre che si intenda dare alla parole veloce una valenza umana.
Le necessità impellenti riportarono sulla terra i due che cercarono, aiutati dalla principessa, di personalizzare gli ambienti, mettendo in atto la prima e più elementare forma di difesa di chi si trova lontano da cose, abitudini, mentalità che non sono proprie.
La casa infatti diventò un po'più casa anche perché, nel frattempo, i nostri avevano pensato di riempirla di cibarie ed i loro stomaci sazi avevano trasmetto gioia e fiducia ai loro cuori in tempesta.
Giunse la sera di un lungo giorno, ricco di emozioni, di un lungo giorno nel corso del quale i loro occhi ed i loro cuori erano stati spennellati con varie mani di vernici di molti colori. Giunse la sera e la loro figlia tornò nel piccolo appartamento: con l'aiuto di tutto e di tutti si ricreò un'atmosfera particolare quale i tre non vivevano da molti anni. Non si parlò tanto ed intensamente di quel fenomeno meravigliosamente strano, anche se i tre si portarono a lungo nella propria personale valigia dei ricordi e delle sensazioni quello che hanno provato in quel particolare momento. Scese la notte ed i tre dormirono. Pare essere la cosa più facile e naturale del mondo, ma per uno dei tre fu veramente una bella notte.
giovedì 19 maggio 2011
Ancora Colombia, sempre Colombia.....
Ricordo che da bambino, al mare, mi divertivo a costringere una palla a stare sott'acqua tenendola ferma con una mano. Quando la lasciavo, obbedendo ad una semplice legge fisica, schizzava in alto e riacquistava poi la sua posizione naturale.
Riprendendo forzatamente quanto già in parte raccontato, mi pare proprio di poter dire che la VITA in Colom-
bia segua quella semplice regola di cui parlavo prima. Ho infatti la netta impressione - non condivisa dai tanti con cui ho avuto modo di scambiare opinioni e pareri - che tutto si regga su di un ferreo controllo del quotidiano, in ogni manifestazione e sfaccettatura. I militari e la vigilanza privata sono onnipresenti e regolano e tengono sotto controllo lo svolgimento delle attività dei colombiani che accettano di buon grado questo stato di militarizzazione non tanto latente.
Anni, decenni di guerriglie con le FARC, i guerriglieri antigovernativi padroni incontrastati di buona parte del territorio nazionale, grazie anche ad aperte connivenze con il potere centrale, hanno ormai "vaccinato" i colombiani che accettano di buon grado il pagamento di questa "tassa" pur di vivere una vita tranquilla, se così la possiamo chiamare. Penso siano convinti, almeno in parte, che un leggero allentamento della presenza militare e della conseguente deterrenza, porterebbe la "palla" a tornare velocemente verso l'alto, con conseguenze drammatiche e nefaste, sia a livello interno che internazionale, campo nel quale la Colombia sta faticosamente e lentamente tentando di rifarsi un abito nuovo e presentabile.
L'Europa e l'Occidente sono radicalmente cambiati dopo l'11 settembre, la vita è diventata più difficile per tutti, si ha sempre il timore che possa accadere qualcosa, nei luoghi affollati e non. La presenza, seppur discreta dei militari, è ovunque percepita ed anche noi siamo disposti a qualche piccola limitazione e verifica supplementare, dopo quanto è accaduto, anche dopo quella fatidica data.
In Colombia si raggiungono però dei livelli assurdi ed intollerabili per chi non vive tra di loro. Non si può entrare con l'automobile nel parcheggio di un supermercato o di un edificio sede di un ufficio pubblico se prima non ci si è fermati all'ingresso per sottoporre la macchina ad un controllo nella parte inferiore, potenziale portatrice, consapevole o meno, di ordigni esplosivi.
Qualunque edificio, almeno limitatamente ai quartieri diciamo così....occidentali, è vigilato nelle 24 ore da portieri armati, chiusi all'interno dei loro gabbiotti e ben attenti a chi entra ed a chi esce. Ben diversamente da come si muovono svogliatamente i nostri residui portieri, questi sono invece sempre pronti a fare entrare un "estraneo" al palazzo, solo dopo aver avuto contezza delle sue generalità e della sua "destinazione" all'interno dell'edificio. Mi si dice che ciò costituisca un elemento di sicurezza in più, ma ....insomma.....ci sarebbe molto da dire e da obiettare.
La polizia ed i militari, spesso giovani alle prime armi, sono fortemente presenti dappertutto, con dotazioni di armi che potrebbero compiere delle stragi, ove erroneamente e troppo facilmente impiegate. I costi di mantenimento di questo formidabile apparato- mi si passi il termine - un po' di cartone se rapportato con quello di altri eserciti occidentali, meno appariscente ma sicuramente più concreto ed efficiente..... , i costi, dicevo, dovrebbero essere elevatissimi. Con conseguente ovvia sottrazione di risorse che potrebbero essere destinate altrove........, e ce ne sarebbe davvero tanto bisogno.
Sarà l'età che sicuramente condiziona e che contrasta con la meravigliosa e formidabile incoscienza giovanile, ma la mia impressione è che ci sia una sottile e leggera "paura" di tutto e per tutto. Si gira per strada, ci si rapporta con gli altri, ci si muove e.....si vive sempre con un po' di ansia. Mi si dirà, e mi è stato detto più volte, che ciò capita in tutte le grandi metropoli, che ci sono quartieri e quartieri, che tutto il mondo è paese.
Sarà anche vero, ma a Milano si può entrare in una qualunque banca, telefonare con il telefonino e presentarsi allo sportello con la mamma,la zia o un amico. In Colombia non lo si può fare per paura che si possa avvisare un complice all'esterno o che si possa costringere l'accompagnatore allo sportello a compiere un prelievo non voluto.
A Milano non ci saranno sicuramente tutti i taxi di Bogotà, ma chiunque ne intravveda uno, lo può tranquillamente fermare per strada. Pagherà una cifra spropositata, combatterà con il traffico, ma arriverà a destinazione. In Colombia, chi si avventura in un taxi all'uscita ad esempio di un centro commerciale, deve lasciare una sorta di "testamento" con intenzioni di viaggio e notizie varie che vengono diligentemente annotate da un solerte addetto che in pratica garantisce la partenza e soprattutto....l'arrivo.
Un altro degli aspetti figlio di questa militarizzazione, ma questa volta direi burocratica è costituito dalla richiesta reiterata ed incessante di un elemento indispensabile per chi voglia vivere da turista in questa terra nella quale, a mio parere, la logica è stata bandita. Parlo di quel libretto che ormai si usa sempre meno in molti paesi del mondo e che comunque si usa in genere un paio di volte nel corso del viaggio: il PASSAPORTO.
Viene ottusamente chiesto e richiesto più e più volte al giorno, per abilitarti a compiere le azioni più banali e normali; si entra in un negozio e si spendono pochi euro? Bene, ti chiedono il passaporto, ti "schedano" diligentemente e ti lasciano con un sorriso a mezza via tra il compiacimento ed altro..........! Per qualunque azione tu compia ed in qualunque maniera tu ti rapporti con loro non si può fare nulla senza il passaporto.
A cosa poi realmente serva, penso nessuno sia in grado di rispondere. Parrebbe essere una forma di tranquillità per loro: sanno chi sei, da dove vieni, cosa fai e quindi si sentono meglio, quasi avessero paura di essere colpiti a tradimento. Mi ricorda un po' Il deserto dei Tartari.
Mi fa sorridere ricordare la polemica nostrana di qualche tempo fa quando una nostra parte politica voleva giustamente prendere le impronte ai Rom. Apriti cielo! Si levarono in volo le prefiche garantiste, invocando il diritto alla privacy, la libertà di movimento, la dignità dell'uomo violata......!
Nella meravigliosa ed assurda terra di Colombia, non gli stranieri soltanto, ma gli indigeni sono sottoposti a questa pratica medioevale ogni qualvolta necessitano di qualche documento rilasciato da uffici pubblici all'interno dei quali campeggiano, in bella vista, enormi tamponi inchiostrati che li attendono. In compenso però,viene poi fornito ai sudditi un delicato pezzetto di garza imbevuto di alcol, quasi a voler loro restituire la verginità violata e perduta.
Lo so da solo, sono perfido. Non sono il classico viaggiatore che va per il mondo ed assorbe positivamente quanto vede, sente, mangia. Mi consolo pensando a quanto mi diceva una persona a me poco simpatica, che forse aveva già intuito gli sviluppi del mio pessimo carattere: sotto il cielo c'è posto per tutti.
Come diceva Baudelaire, sarò virtuoso, domani. L'ho già detto, ma lo ripeto per consolarmi.
Riprendendo forzatamente quanto già in parte raccontato, mi pare proprio di poter dire che la VITA in Colom-
bia segua quella semplice regola di cui parlavo prima. Ho infatti la netta impressione - non condivisa dai tanti con cui ho avuto modo di scambiare opinioni e pareri - che tutto si regga su di un ferreo controllo del quotidiano, in ogni manifestazione e sfaccettatura. I militari e la vigilanza privata sono onnipresenti e regolano e tengono sotto controllo lo svolgimento delle attività dei colombiani che accettano di buon grado questo stato di militarizzazione non tanto latente.
Anni, decenni di guerriglie con le FARC, i guerriglieri antigovernativi padroni incontrastati di buona parte del territorio nazionale, grazie anche ad aperte connivenze con il potere centrale, hanno ormai "vaccinato" i colombiani che accettano di buon grado il pagamento di questa "tassa" pur di vivere una vita tranquilla, se così la possiamo chiamare. Penso siano convinti, almeno in parte, che un leggero allentamento della presenza militare e della conseguente deterrenza, porterebbe la "palla" a tornare velocemente verso l'alto, con conseguenze drammatiche e nefaste, sia a livello interno che internazionale, campo nel quale la Colombia sta faticosamente e lentamente tentando di rifarsi un abito nuovo e presentabile.
L'Europa e l'Occidente sono radicalmente cambiati dopo l'11 settembre, la vita è diventata più difficile per tutti, si ha sempre il timore che possa accadere qualcosa, nei luoghi affollati e non. La presenza, seppur discreta dei militari, è ovunque percepita ed anche noi siamo disposti a qualche piccola limitazione e verifica supplementare, dopo quanto è accaduto, anche dopo quella fatidica data.
In Colombia si raggiungono però dei livelli assurdi ed intollerabili per chi non vive tra di loro. Non si può entrare con l'automobile nel parcheggio di un supermercato o di un edificio sede di un ufficio pubblico se prima non ci si è fermati all'ingresso per sottoporre la macchina ad un controllo nella parte inferiore, potenziale portatrice, consapevole o meno, di ordigni esplosivi.
Qualunque edificio, almeno limitatamente ai quartieri diciamo così....occidentali, è vigilato nelle 24 ore da portieri armati, chiusi all'interno dei loro gabbiotti e ben attenti a chi entra ed a chi esce. Ben diversamente da come si muovono svogliatamente i nostri residui portieri, questi sono invece sempre pronti a fare entrare un "estraneo" al palazzo, solo dopo aver avuto contezza delle sue generalità e della sua "destinazione" all'interno dell'edificio. Mi si dice che ciò costituisca un elemento di sicurezza in più, ma ....insomma.....ci sarebbe molto da dire e da obiettare.
La polizia ed i militari, spesso giovani alle prime armi, sono fortemente presenti dappertutto, con dotazioni di armi che potrebbero compiere delle stragi, ove erroneamente e troppo facilmente impiegate. I costi di mantenimento di questo formidabile apparato- mi si passi il termine - un po' di cartone se rapportato con quello di altri eserciti occidentali, meno appariscente ma sicuramente più concreto ed efficiente..... , i costi, dicevo, dovrebbero essere elevatissimi. Con conseguente ovvia sottrazione di risorse che potrebbero essere destinate altrove........, e ce ne sarebbe davvero tanto bisogno.
Sarà l'età che sicuramente condiziona e che contrasta con la meravigliosa e formidabile incoscienza giovanile, ma la mia impressione è che ci sia una sottile e leggera "paura" di tutto e per tutto. Si gira per strada, ci si rapporta con gli altri, ci si muove e.....si vive sempre con un po' di ansia. Mi si dirà, e mi è stato detto più volte, che ciò capita in tutte le grandi metropoli, che ci sono quartieri e quartieri, che tutto il mondo è paese.
Sarà anche vero, ma a Milano si può entrare in una qualunque banca, telefonare con il telefonino e presentarsi allo sportello con la mamma,la zia o un amico. In Colombia non lo si può fare per paura che si possa avvisare un complice all'esterno o che si possa costringere l'accompagnatore allo sportello a compiere un prelievo non voluto.
A Milano non ci saranno sicuramente tutti i taxi di Bogotà, ma chiunque ne intravveda uno, lo può tranquillamente fermare per strada. Pagherà una cifra spropositata, combatterà con il traffico, ma arriverà a destinazione. In Colombia, chi si avventura in un taxi all'uscita ad esempio di un centro commerciale, deve lasciare una sorta di "testamento" con intenzioni di viaggio e notizie varie che vengono diligentemente annotate da un solerte addetto che in pratica garantisce la partenza e soprattutto....l'arrivo.
Un altro degli aspetti figlio di questa militarizzazione, ma questa volta direi burocratica è costituito dalla richiesta reiterata ed incessante di un elemento indispensabile per chi voglia vivere da turista in questa terra nella quale, a mio parere, la logica è stata bandita. Parlo di quel libretto che ormai si usa sempre meno in molti paesi del mondo e che comunque si usa in genere un paio di volte nel corso del viaggio: il PASSAPORTO.
Viene ottusamente chiesto e richiesto più e più volte al giorno, per abilitarti a compiere le azioni più banali e normali; si entra in un negozio e si spendono pochi euro? Bene, ti chiedono il passaporto, ti "schedano" diligentemente e ti lasciano con un sorriso a mezza via tra il compiacimento ed altro..........! Per qualunque azione tu compia ed in qualunque maniera tu ti rapporti con loro non si può fare nulla senza il passaporto.
A cosa poi realmente serva, penso nessuno sia in grado di rispondere. Parrebbe essere una forma di tranquillità per loro: sanno chi sei, da dove vieni, cosa fai e quindi si sentono meglio, quasi avessero paura di essere colpiti a tradimento. Mi ricorda un po' Il deserto dei Tartari.
Mi fa sorridere ricordare la polemica nostrana di qualche tempo fa quando una nostra parte politica voleva giustamente prendere le impronte ai Rom. Apriti cielo! Si levarono in volo le prefiche garantiste, invocando il diritto alla privacy, la libertà di movimento, la dignità dell'uomo violata......!
Nella meravigliosa ed assurda terra di Colombia, non gli stranieri soltanto, ma gli indigeni sono sottoposti a questa pratica medioevale ogni qualvolta necessitano di qualche documento rilasciato da uffici pubblici all'interno dei quali campeggiano, in bella vista, enormi tamponi inchiostrati che li attendono. In compenso però,viene poi fornito ai sudditi un delicato pezzetto di garza imbevuto di alcol, quasi a voler loro restituire la verginità violata e perduta.
Lo so da solo, sono perfido. Non sono il classico viaggiatore che va per il mondo ed assorbe positivamente quanto vede, sente, mangia. Mi consolo pensando a quanto mi diceva una persona a me poco simpatica, che forse aveva già intuito gli sviluppi del mio pessimo carattere: sotto il cielo c'è posto per tutti.
Come diceva Baudelaire, sarò virtuoso, domani. L'ho già detto, ma lo ripeto per consolarmi.
martedì 12 aprile 2011
Colombia, mia figlia, la mia vita...
Aveva ragione mio padre. Come spesso gli accadeva aveva ragione mio padre. Aveva ragione quando mi ripeteva spesso che la realtà della vita quotidiana è superiore alla fantasia di qualsiasi romanzo.
Chi mai avrebbe infatti potuto prevedere, nel mio caso personale ovviamente, che avrei potuto e dovuto legarmi indissolubilmente ad una realtà umana, sociale e geografica come la Colombia, tanto assurdamente lontana da me e dal mio vissuto? Per la maggior parte degli europei medi, la Colombia è sì collocabile all'interno dell'America- Latina, ma in maniera vaga ed approssimata, tanto dal poterla forse confondere con alcuni degli stati con essa confinanti. La leghiamo orgogliosamente a Colombo, pensiamo agli spagnoli, al trattato di Tordesillas che divideva le zone di influenza futura tra loro ed i portoghesi, pensiamo ai Conquistadores ed a quanto hanno fatto di male (molto) e di bene (assai poco). Pensiamo infine alla droga, al cartello di Medellin!
I luoghi comuni sono purtroppo i più difficili da gestire correttamente. Non siamo forse noi italiani, per gli altri, un popolo di pizzaioli, di mandolinari e di mafiosi?
Da un paio d'anni a questa parte la Colombia è prepotentemente entrata nei meandri della mia vita, condizionandola in parte, sia positivamente che negativamente. Mia figlia ha pensato bene di trasferirsi là, creando inevitabilmente un forte polo di attrazione umano ed affettivo nei miei confronti.
Per non apparire ipocrita e per sgombrare subito il campo da facili malintesi, devo dire che, al di là di quelle che sono le mie valutazioni personali sulla sua scelta di vita, l'impatto con la nazione Colombia è stato negativo.
Ho "odiato" ferocemente la Colombia perché mi ha portato via una figlia, perché me l'ha portata tanto lontano ed anche - forse - perché si ha sempre più paura di ciò che non si conosce e di ciò che è tanto diverso da noi.
Devo anche confessare, in vena di outing, che ho approcciato la Colombia con l'atteggiamento del coloniale che giudica quanto gli sta intorno con una certa aria di sufficienza e di superiorità. Probabilmente, in parte, per "vendicarmi" del furto di una figlia. E non mi si venga a dire, per cortesia, che i figli non sono "roba" nostra, che l'importante è che stiano bene loro, al di là delle scelte e dei luoghi, che noi dobbiamo accettare....soffrire!
Tutte belle parole che non trovano riscontro facilmente nell'animo umano.
Come diceva il Poeta: "intender no lo può..........."
Comunque.
Certo è che il mio primo arrivo all'aeroporto di Bogotà, Eldorado, non mi ha aiutato molto a disfarmi di questa non nobile zavorra. Al di là dello stato di provvisorietà di tutta la struttura, in fase di un rinnovamento epocale quanto tardo a venire, la prima cosa che si nota è la forte presenza di militari e di addetti vari che ti
condizionano nei movimenti e soprattutto nei pensieri, presenti e futuri. Cercando di spiegarmi meglio, dirò che si percepisce subito quella triste aria di militarizzazione tipica di tanta letteratura e filmografia sud-americana e - purtroppo- di tanta realtà vissuta sulla pelle degli uomini. Chi verifica i passaporti lo fa con un'aria stanca e molto sufficiente, forse dimenticando e non tenendo in debito conto che il portatore del passaporto è o potrà essere un futuro contribuente per il miglioramento delle condizioni della sua Patria. Come nelle nazioni islamiche vige un concetto teocratico della Stato, così in Sud-America molto, per non dire tutto, si regge sul potere forte dell'esercito e della polizia, sebbene moderato e mitigato da una forma di democrazia che vorrebbe copiare quella occidentale, con risultati non sempre pari alle intenzioni. Pare ci sia un asservimento ottuso dell'intelligenza personale e collettiva ad un disegno maggiore, ad un forte bisogno di ordine e di pace tanto a lungo desiderati e sperati, asservimento che disorienta l'europeo o comunque chi ha da tempo raggiunto queste condizioni sociali. Non cozza forse contro la logica " subire " una perquisizione personale abbastanza accurata, tra l'altro, all'arrivo di un volo dall'Europa ed in uscita da un aeroporto?
Mah!
La Colombia è però una nazione "socialmente e strutturalmente" giovane e....direi naive. Tra le iniziative che non troverebbero più spazio nella vecchia e stanca Italia ce n'è una a mio parere furba ed intelligente. Al ritiro dei bagagli in aeroporto, una graziosa fanciulla controlla e verifica che il tagliando attaccato alla nostra valigia corrisponda alla ricevuta attaccata al nostro biglietto onde evitare spiacevoli "contrattempi".
Stessa manovra, anche se con motivazioni in parte diverse, vale per i taxi, croce e delizia di quanti arrivano in un Paese sconosciuto e fra i primi biglietti da visita, spesso non gradevolissimi. Si viene militarmente incolonnati ed indirizzati ad un chiosco che, a fronte della presentazione della nostra meta, ci rilascia uno scontrino attestante l'importo già pagato e la nostra destinazione onde evitare contrattazioni sul prezzo, malintesi e sforzi linguistici con l'autista.
Chi mai avrebbe infatti potuto prevedere, nel mio caso personale ovviamente, che avrei potuto e dovuto legarmi indissolubilmente ad una realtà umana, sociale e geografica come la Colombia, tanto assurdamente lontana da me e dal mio vissuto? Per la maggior parte degli europei medi, la Colombia è sì collocabile all'interno dell'America- Latina, ma in maniera vaga ed approssimata, tanto dal poterla forse confondere con alcuni degli stati con essa confinanti. La leghiamo orgogliosamente a Colombo, pensiamo agli spagnoli, al trattato di Tordesillas che divideva le zone di influenza futura tra loro ed i portoghesi, pensiamo ai Conquistadores ed a quanto hanno fatto di male (molto) e di bene (assai poco). Pensiamo infine alla droga, al cartello di Medellin!
I luoghi comuni sono purtroppo i più difficili da gestire correttamente. Non siamo forse noi italiani, per gli altri, un popolo di pizzaioli, di mandolinari e di mafiosi?
Da un paio d'anni a questa parte la Colombia è prepotentemente entrata nei meandri della mia vita, condizionandola in parte, sia positivamente che negativamente. Mia figlia ha pensato bene di trasferirsi là, creando inevitabilmente un forte polo di attrazione umano ed affettivo nei miei confronti.
Per non apparire ipocrita e per sgombrare subito il campo da facili malintesi, devo dire che, al di là di quelle che sono le mie valutazioni personali sulla sua scelta di vita, l'impatto con la nazione Colombia è stato negativo.
Ho "odiato" ferocemente la Colombia perché mi ha portato via una figlia, perché me l'ha portata tanto lontano ed anche - forse - perché si ha sempre più paura di ciò che non si conosce e di ciò che è tanto diverso da noi.
Devo anche confessare, in vena di outing, che ho approcciato la Colombia con l'atteggiamento del coloniale che giudica quanto gli sta intorno con una certa aria di sufficienza e di superiorità. Probabilmente, in parte, per "vendicarmi" del furto di una figlia. E non mi si venga a dire, per cortesia, che i figli non sono "roba" nostra, che l'importante è che stiano bene loro, al di là delle scelte e dei luoghi, che noi dobbiamo accettare....soffrire!
Tutte belle parole che non trovano riscontro facilmente nell'animo umano.
Come diceva il Poeta: "intender no lo può..........."
Comunque.
Certo è che il mio primo arrivo all'aeroporto di Bogotà, Eldorado, non mi ha aiutato molto a disfarmi di questa non nobile zavorra. Al di là dello stato di provvisorietà di tutta la struttura, in fase di un rinnovamento epocale quanto tardo a venire, la prima cosa che si nota è la forte presenza di militari e di addetti vari che ti
condizionano nei movimenti e soprattutto nei pensieri, presenti e futuri. Cercando di spiegarmi meglio, dirò che si percepisce subito quella triste aria di militarizzazione tipica di tanta letteratura e filmografia sud-americana e - purtroppo- di tanta realtà vissuta sulla pelle degli uomini. Chi verifica i passaporti lo fa con un'aria stanca e molto sufficiente, forse dimenticando e non tenendo in debito conto che il portatore del passaporto è o potrà essere un futuro contribuente per il miglioramento delle condizioni della sua Patria. Come nelle nazioni islamiche vige un concetto teocratico della Stato, così in Sud-America molto, per non dire tutto, si regge sul potere forte dell'esercito e della polizia, sebbene moderato e mitigato da una forma di democrazia che vorrebbe copiare quella occidentale, con risultati non sempre pari alle intenzioni. Pare ci sia un asservimento ottuso dell'intelligenza personale e collettiva ad un disegno maggiore, ad un forte bisogno di ordine e di pace tanto a lungo desiderati e sperati, asservimento che disorienta l'europeo o comunque chi ha da tempo raggiunto queste condizioni sociali. Non cozza forse contro la logica " subire " una perquisizione personale abbastanza accurata, tra l'altro, all'arrivo di un volo dall'Europa ed in uscita da un aeroporto?
Mah!
La Colombia è però una nazione "socialmente e strutturalmente" giovane e....direi naive. Tra le iniziative che non troverebbero più spazio nella vecchia e stanca Italia ce n'è una a mio parere furba ed intelligente. Al ritiro dei bagagli in aeroporto, una graziosa fanciulla controlla e verifica che il tagliando attaccato alla nostra valigia corrisponda alla ricevuta attaccata al nostro biglietto onde evitare spiacevoli "contrattempi".
Stessa manovra, anche se con motivazioni in parte diverse, vale per i taxi, croce e delizia di quanti arrivano in un Paese sconosciuto e fra i primi biglietti da visita, spesso non gradevolissimi. Si viene militarmente incolonnati ed indirizzati ad un chiosco che, a fronte della presentazione della nostra meta, ci rilascia uno scontrino attestante l'importo già pagato e la nostra destinazione onde evitare contrattazioni sul prezzo, malintesi e sforzi linguistici con l'autista.
martedì 1 febbraio 2011
Orazio e l'animus aequus.
Erano belli gli anni del liceo.....
Che c'entra con Orazio? C'entra; almeno per me. Una mattina di novembre di ormai tanti anni fa, siamo
partiti dalla stazione della mia città. Eravamo un piccolo gruppo di giovani di belle speranze e pensavamo di andare a risolvere i problemi del mondo, o almeno quelli cui si trovava allora a dovere fronteggiare la città di Firenze dopo l'alluvione e l'esondazione dell'Arno. Non ci aveva costretto nessuno e non lo facevamo, una volta tanto, per perdere qualche giorno di scuola. Semplicemente ci muoveva il desiderio di contribuire in piccolissima parte - e di questo eravamo certi - ad aiutare chi era stato travolto da quell'inaspettata catastrofe. Giravamo per la città con degli enormi stivaloni ed armati di un badile, pronti a spalare e rigettare in Arno, anche se metaforicamente, un po' di quel fango che il fiume aveva irrispettosamente sputato sui monumenti, sulle case, sulle chiese, su tutto. Ci sentivamo dei piccoli salvatori della Patria: allora non c'era la Protezione Civile ed il volontariato non aveva l'organizzazione ed i numeri odierni; c'erano i pompieri, i fiorentini ed un sacco di persone, giovani e non, disposte e pronte ad aiutare nel modo migliore possibile. Ancora oggi ripenso con piacere e con orgoglio alle faticose cordate umane costituite per estarre dal fango le centinaia di migliaia di volumi della Biblioteca Nazionale. Una piccola quantità di medicina che ancora oggi ha su di me i suoi effetti positivi e che contribuisce ad aumentare l'elenco, in verità scarso, delle cose buone che penso di avere fatto. E poi, col Manzoni, spero sia vero che il Padre Eterno perdona tante cose cattive a fronte di una buona.
Che c'entra con Orazio? C'entra.
Sono stato rimandato in latino in seconda media ed il professore che mi ha aiutato in quell'estate a recuperare terreno, mi ha fatto amare questa lingua. Allora era uno spauracchio per tanti, insieme al greco che sarebbe arrivato al ginnasio Stranamente a me è piaciuta sempre più, da allora, compatibilmente ovviamente con l'età e con la capacità limitata di capirne il significato più profondo.
Orazio è sempre stato, sin da allora, il mio autore preferito. Non mi chiedevo il perché; semplicemente leggevo volentieri, pur in un contesto scolastico, quanto ci veniva proposto e....mi piaceva, mi faceva piacere leggerlo.
Dopo molti anni, con tanta polvere posata sulle spalle e tanta vita passata sopra, ho ripreso in mano i classici e sono tornato al mio autore preferito. Sembra che il tempo non sia passato. Purtroppo non è così e, se da un lato certe sensazioni che provavo allora sono molto simili, certamente l'età mi aiuta a cogliere di più e meglio.
Come allora non posso non provare un piacere interiore nel rileggere l'Ode in cui il mar Tirreno si "affatica" contro gli scogli e non posso evitare di farmi trasportare troppo lontano ed in effetti mi piace farmi trasportare. Come allora penso all'"inviso cipresso", triste, ma anche dolce riflessione.
Il mio pensiero però corre sempre alla undicesima epistola del primo Libro. Le epistole sono dell'Orazio
ormai maturo e quindi racchiudono inevitabilmente la sua filosofia della vita. Secondo i critici non raggiungono le vette liriche delle Odi, la loro perfezione stlistico-lessicale e non ne hanno neppure la musicalità e rotondità semantica. Sarà vero sicuramente, ma per me l'Epistola a Bullazio contiene alcuni concetti fondamentali in cui mi sono specchiato in gran parte della mia vita; mi pare di rivedere me stesso, perfettamente declinato ed esamnato ai raggi x.
Allora crtamente non lo sapevo e non lo potevo sapere, ma penso sia per questo che l'ho sempre portata con me e mi ci sono sempre ritrovato, nel bene e nel male. Ritengo che ognuno di noi trovi, nel corso del proprio cammino, degli indizi, dei dati allora insignificanti, ma che poi ritornano nel presente e ti permettono di ricollegarti al tuo passato remoto.
Sia come sia, Orazio/Bullazio, non sfuggendo l'autore al vezzo di inventare un alter ego cui rivolgersi che altri non è chi scrive, pone sul tappeto una meravigliosa e, per me, drammatica questione.
" Caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt " A mio parere un verso tra i più belli e non solo di Orazio. Racchiude alcuni concetti infiniti come il cielo, il mare e l'animo umano e li contrappone inevitabilmente, inducendoci ad una riflessione che, per quanto mi riguarda, mi schiaccia con il suo peso.
Mi spiace confessarlo, ma questo concetto lo sento mio, napoleonicamente e presuntuosamente mio. Tutta la mia vita è stata contrassegnata dal non essere mai a mio agio in nessun posto e dal cercare disperatamente un luogo, fisico e mentale, dove posarmi. Non ci sono mai riuscito e penso che oramai non ci riuscirò più.
Mi manca una condizione d'animo facilmente classificabile e definibile: l'animo equilibrato ed equidistante dagli eccessi delle passioni; in poche parole non ho l'"animus aequus". Mi consola sapere che la mia condizione fosse ampiamente condivisa da Orazio che si definiva, in un'altra Epistola, "ventosus", instabile e volubile come il vento e non trovava luogo ove appagare la sua frenesia cinetica.
Quanto espresso dal Nostro viene da lontano, da Socrate, e va lontano. Seneca, anch'egli nelle Lettere, riprende il concetto con un lapidario "Tecum sunt quae fugis"; Marco Aurelio parla di ricerca all'interno di noi stessi per risolvere i nostri problemi; il Boileau ci dice che la tranquillità interiore non ci farebbe distinguere la differenza tra Cuzco e Parigi; l'ultima notte dell'Innominato manzoniano è turbata dal pensiero che "lui" sarebbe stato sempre con sé.
Le giovani ragazze della buona borghesia americana degli anni Trenta, innamorate sconvenientemente per ceto e censo, erano prontamente spedite in lunghe crociere in Europa, al fine di dimenticare ed essere dimenticate. Chi non ricorda la splendida Sabrina di Audrey Hepburn, in partenza per Parigi a bordo del Normandie?
E' curioso notare che sia Orazio che Seneca usino sì - ovviamente - due verbi di moto, ma che questi due verbi contengano ambedue un moto accelerato e rapido, a significare il vano tentativo di "fuggire"
un'inquietudine in maniera disordinata ed irrazionale.
Non vi è soluzione, chi non possiede la tranquillità interiore è destinato a girovagare fisicamente ed anche mentalmente senza trovare pace alla "strenua inertia". Chi invece si trova nella felice condizione opposta, vivrà bene anche ad Ulubre, sperduto agglomerato dell'agro Pontino, ricordato da Cicerone ai familiari per....le ranocchie.
Potrei e forse vorrei andare oltre, ma mi fermo.....per decenza!
A proposito, che c'entra Orazio?
Quella famosa mattina di novembre mi teneva compagnia, in treno, con questa Epistola. Sapevo di dovere essere interrogato la settimana seguente e la spedizione fiorentina non mi poneva giustamente in una posizione preferenziale agli occhi dei" terribili" professori di allora.
Che c'entra con Orazio? C'entra; almeno per me. Una mattina di novembre di ormai tanti anni fa, siamo
partiti dalla stazione della mia città. Eravamo un piccolo gruppo di giovani di belle speranze e pensavamo di andare a risolvere i problemi del mondo, o almeno quelli cui si trovava allora a dovere fronteggiare la città di Firenze dopo l'alluvione e l'esondazione dell'Arno. Non ci aveva costretto nessuno e non lo facevamo, una volta tanto, per perdere qualche giorno di scuola. Semplicemente ci muoveva il desiderio di contribuire in piccolissima parte - e di questo eravamo certi - ad aiutare chi era stato travolto da quell'inaspettata catastrofe. Giravamo per la città con degli enormi stivaloni ed armati di un badile, pronti a spalare e rigettare in Arno, anche se metaforicamente, un po' di quel fango che il fiume aveva irrispettosamente sputato sui monumenti, sulle case, sulle chiese, su tutto. Ci sentivamo dei piccoli salvatori della Patria: allora non c'era la Protezione Civile ed il volontariato non aveva l'organizzazione ed i numeri odierni; c'erano i pompieri, i fiorentini ed un sacco di persone, giovani e non, disposte e pronte ad aiutare nel modo migliore possibile. Ancora oggi ripenso con piacere e con orgoglio alle faticose cordate umane costituite per estarre dal fango le centinaia di migliaia di volumi della Biblioteca Nazionale. Una piccola quantità di medicina che ancora oggi ha su di me i suoi effetti positivi e che contribuisce ad aumentare l'elenco, in verità scarso, delle cose buone che penso di avere fatto. E poi, col Manzoni, spero sia vero che il Padre Eterno perdona tante cose cattive a fronte di una buona.
Che c'entra con Orazio? C'entra.
Sono stato rimandato in latino in seconda media ed il professore che mi ha aiutato in quell'estate a recuperare terreno, mi ha fatto amare questa lingua. Allora era uno spauracchio per tanti, insieme al greco che sarebbe arrivato al ginnasio Stranamente a me è piaciuta sempre più, da allora, compatibilmente ovviamente con l'età e con la capacità limitata di capirne il significato più profondo.
Orazio è sempre stato, sin da allora, il mio autore preferito. Non mi chiedevo il perché; semplicemente leggevo volentieri, pur in un contesto scolastico, quanto ci veniva proposto e....mi piaceva, mi faceva piacere leggerlo.
Dopo molti anni, con tanta polvere posata sulle spalle e tanta vita passata sopra, ho ripreso in mano i classici e sono tornato al mio autore preferito. Sembra che il tempo non sia passato. Purtroppo non è così e, se da un lato certe sensazioni che provavo allora sono molto simili, certamente l'età mi aiuta a cogliere di più e meglio.
Come allora non posso non provare un piacere interiore nel rileggere l'Ode in cui il mar Tirreno si "affatica" contro gli scogli e non posso evitare di farmi trasportare troppo lontano ed in effetti mi piace farmi trasportare. Come allora penso all'"inviso cipresso", triste, ma anche dolce riflessione.
Il mio pensiero però corre sempre alla undicesima epistola del primo Libro. Le epistole sono dell'Orazio
ormai maturo e quindi racchiudono inevitabilmente la sua filosofia della vita. Secondo i critici non raggiungono le vette liriche delle Odi, la loro perfezione stlistico-lessicale e non ne hanno neppure la musicalità e rotondità semantica. Sarà vero sicuramente, ma per me l'Epistola a Bullazio contiene alcuni concetti fondamentali in cui mi sono specchiato in gran parte della mia vita; mi pare di rivedere me stesso, perfettamente declinato ed esamnato ai raggi x.
Allora crtamente non lo sapevo e non lo potevo sapere, ma penso sia per questo che l'ho sempre portata con me e mi ci sono sempre ritrovato, nel bene e nel male. Ritengo che ognuno di noi trovi, nel corso del proprio cammino, degli indizi, dei dati allora insignificanti, ma che poi ritornano nel presente e ti permettono di ricollegarti al tuo passato remoto.
Sia come sia, Orazio/Bullazio, non sfuggendo l'autore al vezzo di inventare un alter ego cui rivolgersi che altri non è chi scrive, pone sul tappeto una meravigliosa e, per me, drammatica questione.
" Caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt " A mio parere un verso tra i più belli e non solo di Orazio. Racchiude alcuni concetti infiniti come il cielo, il mare e l'animo umano e li contrappone inevitabilmente, inducendoci ad una riflessione che, per quanto mi riguarda, mi schiaccia con il suo peso.
Mi spiace confessarlo, ma questo concetto lo sento mio, napoleonicamente e presuntuosamente mio. Tutta la mia vita è stata contrassegnata dal non essere mai a mio agio in nessun posto e dal cercare disperatamente un luogo, fisico e mentale, dove posarmi. Non ci sono mai riuscito e penso che oramai non ci riuscirò più.
Mi manca una condizione d'animo facilmente classificabile e definibile: l'animo equilibrato ed equidistante dagli eccessi delle passioni; in poche parole non ho l'"animus aequus". Mi consola sapere che la mia condizione fosse ampiamente condivisa da Orazio che si definiva, in un'altra Epistola, "ventosus", instabile e volubile come il vento e non trovava luogo ove appagare la sua frenesia cinetica.
Quanto espresso dal Nostro viene da lontano, da Socrate, e va lontano. Seneca, anch'egli nelle Lettere, riprende il concetto con un lapidario "Tecum sunt quae fugis"; Marco Aurelio parla di ricerca all'interno di noi stessi per risolvere i nostri problemi; il Boileau ci dice che la tranquillità interiore non ci farebbe distinguere la differenza tra Cuzco e Parigi; l'ultima notte dell'Innominato manzoniano è turbata dal pensiero che "lui" sarebbe stato sempre con sé.
Le giovani ragazze della buona borghesia americana degli anni Trenta, innamorate sconvenientemente per ceto e censo, erano prontamente spedite in lunghe crociere in Europa, al fine di dimenticare ed essere dimenticate. Chi non ricorda la splendida Sabrina di Audrey Hepburn, in partenza per Parigi a bordo del Normandie?
E' curioso notare che sia Orazio che Seneca usino sì - ovviamente - due verbi di moto, ma che questi due verbi contengano ambedue un moto accelerato e rapido, a significare il vano tentativo di "fuggire"
un'inquietudine in maniera disordinata ed irrazionale.
Non vi è soluzione, chi non possiede la tranquillità interiore è destinato a girovagare fisicamente ed anche mentalmente senza trovare pace alla "strenua inertia". Chi invece si trova nella felice condizione opposta, vivrà bene anche ad Ulubre, sperduto agglomerato dell'agro Pontino, ricordato da Cicerone ai familiari per....le ranocchie.
Potrei e forse vorrei andare oltre, ma mi fermo.....per decenza!
A proposito, che c'entra Orazio?
Quella famosa mattina di novembre mi teneva compagnia, in treno, con questa Epistola. Sapevo di dovere essere interrogato la settimana seguente e la spedizione fiorentina non mi poneva giustamente in una posizione preferenziale agli occhi dei" terribili" professori di allora.
domenica 30 gennaio 2011
Mi manca...
Come tutti gli appassionati del settore, credo di avere assaggiato una notevole quantità di vini, da quando ho iniziato a fare parte di questa schiera di......eletti. Ovviamente ho i miei gusti, le mie preferenze, le mie tipologie. Mi sono creato un piccolo archivio gustativo-mentale ed oramai mi discosto difficilmente da quello e dalla strada tracciata e consolidata. Sono, a torto o a ragione, un conservatore per cui difficilmente mi apro a novità dell'ultima ora anche perché ritengo che il mondo del vino sia regolato e governato da determinate regole. Il terroir, i vitigni, la vinificazione e gli affinamenti sono in pratica quelli e quelli restano, pur con il passare delle mode e dei tempi. L'uso massiccio del legno piccolo ha infine contribuito ad un livellamento del vino, livellamento che ha forse danneggiato il prodotto di qualità ed ha favorito chi stava nel medio, snaturando in parte
concetti evolutivi e tecniche enologiche vecchi di secoli.
Per quanto mi riguarda, come dicevo, mi sono costruito il mio personale piccolo "harem" del vino ed ormai mi muovo in quello, senza grandi sortite che - riconosco - a volte sarebbero doverose e salutari.
Mi piacerebbe però, a proposito di sortite, lanciarmi verso un vino particolare che inseguo. inutilmente, da qualche anno: il Vin de Constance, un vino da dessert dell'emisfero australe, forse il migliore ed il più raro. Nasce nella seconda metà del '600 in Sud Africa, nella zona di Città del Capo, prodotto dalla tenuta Klein Constantia che ha i propri vigneti proprio nella zona pianeggiante sotto la Table Mountain. I cloni sono quelli del moscato, presente un po' dappertutto nelle sue svariate declinazioni, del muscat de Frontignan, proveniente dal sud-ovest della Francia. Ebbe, nel Settecento e nell'Ottocento, grande fortuna in Europa, limitatamente ovviamente a quei pochi che se lo potevano permettere, e per motivi economici, e per zone e Paesi di influenza culturale e di collegamenti che poteva avere l'Olanda del tempo.
Come il Porto ed il Madeira, veniva bevuto solo a certe tavole. Anche se è ormai appurato che Napoleone sia morto di un cancro allo stomaco, alcune leggende vorrebbero che il veleno che lo portò alla morte fosse stato diluito in un bicchiere di Vin de Constance.
Alla fine dell'Ottocento, la fortuna e la vita di questo vino vengono annientati dalla fillossera. Per circa un secolo del vino non c'è più traccia, sino a quando - verso la fine del Novecento - l'azienda viene acquistata da Duggie Jooste che la fa letteralmente rinascere a nuova vita e, nei circa 70 ettari vitati, viene reimpiantato anche il moscato. Con un lavoro meticoloso e paziente si fa il possibile per ricreare le condizioni ottimali che hanno poi permesso al Vin de Constance di essere nuovamente presente, seppure limitatamente a certi mercati e con quantità irrisorie, rispetto alle richieste.
Risulterebbe avere colore giallo oro, dolcezza equilibrata dall'acidità, con la menta ed il limone che testimoniano del clima
marittimo e temperato della zona di produzione. Particolare da non sottovalutare risulta il non essere necessariamente e sempre botritizzato, discostandosi in questo radicalmente dai Sauternes. Quattro anni di barrique concorrono a completare il quadro e ad alimentare la mia curiosità.
Pare sia commercializzato prevalentemente negli Stati Uniti e nell'Europa del Nord. Non è certamente un caso che la sola degustazione verticale di questo vino in Italia si sia tenuta all'Azienda Querciabella di Greve in Chianti, presenti Tachis e Veronelli ! Certo, non sono più i tempi in cui, alla metà dell'Ottocento, ai tavoli del mitico ristorante parigino del Palais- Royal, i "Trois Frères Provencaux" si poteva ordinare una mezza bottiglia di Vin de Constance a 12 franchi, ma chissà che non mi riesca prima o poi di "agguantarne " una bottiglia e chiudere forse il cerchio, soddisfacendo una delle mie ultime curiosità enologiche.
concetti evolutivi e tecniche enologiche vecchi di secoli.
Per quanto mi riguarda, come dicevo, mi sono costruito il mio personale piccolo "harem" del vino ed ormai mi muovo in quello, senza grandi sortite che - riconosco - a volte sarebbero doverose e salutari.
Mi piacerebbe però, a proposito di sortite, lanciarmi verso un vino particolare che inseguo. inutilmente, da qualche anno: il Vin de Constance, un vino da dessert dell'emisfero australe, forse il migliore ed il più raro. Nasce nella seconda metà del '600 in Sud Africa, nella zona di Città del Capo, prodotto dalla tenuta Klein Constantia che ha i propri vigneti proprio nella zona pianeggiante sotto la Table Mountain. I cloni sono quelli del moscato, presente un po' dappertutto nelle sue svariate declinazioni, del muscat de Frontignan, proveniente dal sud-ovest della Francia. Ebbe, nel Settecento e nell'Ottocento, grande fortuna in Europa, limitatamente ovviamente a quei pochi che se lo potevano permettere, e per motivi economici, e per zone e Paesi di influenza culturale e di collegamenti che poteva avere l'Olanda del tempo.
Come il Porto ed il Madeira, veniva bevuto solo a certe tavole. Anche se è ormai appurato che Napoleone sia morto di un cancro allo stomaco, alcune leggende vorrebbero che il veleno che lo portò alla morte fosse stato diluito in un bicchiere di Vin de Constance.
Alla fine dell'Ottocento, la fortuna e la vita di questo vino vengono annientati dalla fillossera. Per circa un secolo del vino non c'è più traccia, sino a quando - verso la fine del Novecento - l'azienda viene acquistata da Duggie Jooste che la fa letteralmente rinascere a nuova vita e, nei circa 70 ettari vitati, viene reimpiantato anche il moscato. Con un lavoro meticoloso e paziente si fa il possibile per ricreare le condizioni ottimali che hanno poi permesso al Vin de Constance di essere nuovamente presente, seppure limitatamente a certi mercati e con quantità irrisorie, rispetto alle richieste.
Risulterebbe avere colore giallo oro, dolcezza equilibrata dall'acidità, con la menta ed il limone che testimoniano del clima
marittimo e temperato della zona di produzione. Particolare da non sottovalutare risulta il non essere necessariamente e sempre botritizzato, discostandosi in questo radicalmente dai Sauternes. Quattro anni di barrique concorrono a completare il quadro e ad alimentare la mia curiosità.
Pare sia commercializzato prevalentemente negli Stati Uniti e nell'Europa del Nord. Non è certamente un caso che la sola degustazione verticale di questo vino in Italia si sia tenuta all'Azienda Querciabella di Greve in Chianti, presenti Tachis e Veronelli ! Certo, non sono più i tempi in cui, alla metà dell'Ottocento, ai tavoli del mitico ristorante parigino del Palais- Royal, i "Trois Frères Provencaux" si poteva ordinare una mezza bottiglia di Vin de Constance a 12 franchi, ma chissà che non mi riesca prima o poi di "agguantarne " una bottiglia e chiudere forse il cerchio, soddisfacendo una delle mie ultime curiosità enologiche.
Un po' di "latinorum"
In famiglia venivo e vengo spesso rimproverato per parlare troppo, per essere eccessivamente prolisso e bizantino nelle mie elucubrazioni mentali e verbali. Sono convinto che abbiano ragione, anche se non riesco a porre rimedio a questo mio difetto che mi aliena sicuramente qualche simpatia e che allontana, seppur simpaticamente, le persone da me.
Ma tant'è.
Parto effettivamente da lontano per cercare di portare avanti un concetto ed un ragionamento che mi stanno a cuore. Spero almeno di arrivare alla fine.
Quel grande storico francese del secolo scorso, Fernand Braudel, sosteneva, non ricordo in quale dei suoi numerosi saggi, che in qualche misura siamo tutti figli dell'Ellade. Volendo con ciò dimostrare una certa discendenza e dipendenza culturale in senso lato del mondo occidentale dalla Grecia, per quanto ha rappresentato, per quello che è stata. Penso alludesse, tra l'altro, al fatto che in Grecia è nata la democrazia, che la filosofia, l'arte, la storiografia, la poesia ed altre manifestazioni dell'animo dell'uomo sono germogliate in quella terra. Tutto quanto è venuto dopo è in parte figlio spirituale della Grecia, ha usato quei mattoni per costruirsi la propria casa, diversa dalla prima, ma con sostanziali elementi in comune.
Ricalcando però concetti già espressi da altri, mi parrebbe giusto e doveroso aggiungere che l'Occidente è sì un'emanazione della cultura e civiltà greche, ma che ha un altro pilastro su cui si regge e mi riferisco a Roma ed a quanto
ha rappresentato ed in parte ancora fiocamente rappresenta in merito allo sviluppo socio-culturale del mondo in cui viviamo. Il Cristianesimo, infine, elemento catalizzatore e terreno di coltura, mi pare sia il terzo pilastro, in mancanza del quale non sarebbe stato possibile percorrere un certo cammino.
Roma e la cultura romana hanno sempre sofferto di un complesso di inferiorità nei confronti della Grecia. Non c'era giovane di buona famiglia che non ritenesse doveroso completare la propria formazione culturale in Grecia, tutta la letteratura romana trae spunto dai lirici greci. Non vorrei qui dilungarmi in una inutile "guerra" tra Roma ed Atene, non vorrei alludere al pragmatismo romano, a quanto Roma ci ha lasciato in campo amministrativo, giuridico ed architettonico, alle differenze sostanziali tra le città greche chiuse in sé stesse e l'apertura del mondo romano.
Vorrei però difendere, per quanto in mio potere, il latino, il tanto bistrattato latino, odiato e temuto nelle scuole, considerato ormai lingua morta ed inutile. Ricordo i miei lontani anni del Liceo: anch'io non sfuggivo alla regola; avevo paura del latino, mi sembrava una cosa inutile, una perdita di tempo. Con il passare del tempo - tanto - ho ripreso in mano qualche vecchio testo scolastico ed ho iniziato un percorso che mi ha condotto ad una piacevole riconsiderazione di quanto pensavo. Piano piano ho riletto qualcosa di quegli autori che allora mi sembravano marziani, ho imparato ad apprezzarli e ad amarli.
Chi non conosce il mondo classico, ed in questo caso il mondo di Roma, ha una visione monca delle eterne problematiche della vita, dei meccanismi che regolano quell'entità assurdamente meravigliosa che è l'animo umano. Chi non ha letto la letteratura latina e la poesia latina, forse non lo sa, ma manca di qualcosa ed ha conseguentemente una visione più ristretta del mondo che lo circonda ed in cui vive. Mi piace ricordare un grande traduttore di autori latini, Luca Canali, il quale afferma in una sua opera che "...fra un ingegnere intelligente che ha letto Lucrezio e Petronio (e magari anche Proust e Joyce) e un ingegnere ugualmente intelligente che non li ha letti, costruirà migliori ponti e strade il primo."
Anche sul piano lessico-grammaticale il latino ha sempre subito veri attacchi. Leggendo i classici e proseguendo nel tempo, si notano già digressioni e notevoli licenze rispetto all'impianto grammticale latino, di per sé molto rigido ed equilibrato.
Il nostro stesso italiano che del latino è un'ovvia emanazione, lo ha logicamente ed inevitabilmente stravolto, come ci insegna una qualsiasi grammatica storica della nostra lingua. La tradizione popolare ha curiosamente "tradotto" in italiano preghiere e formule in maniera non aderente al testo ed al significato primari. "Agnus Dei, qui tollis peccata mundi" è stato ad esempio forzatamente trasformato in "Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo", travalicando il vero significato di tollis, che sarebbe poi porti sopra di te, ti fai carico.
Perché dobbiamo continuamente sentire mal pronunciato il nominativo neutro plurale dell'aggettivo medius, che sta nel mezzo, quando si vuole alludere ai mezzi di informazione quali la stampa scritta e parlata?
Perché iunior, comparativo di iuvenis, deve essere pronunciato e scritto all'inglese ed uguale sorte deve toccare a senior, semplice comparativo di senex?
Gli scambi ed i prestiti tra le varie lingue ci sono sempre stati e sempre ci saranno, ma il latino è una lingua morta, non può più difendersi. Lasciamolo almeno dormire in pace, se non vogliamo o non possiamo apprezzarne e gustarne l'eleganza, la musicalità e la perfezione.
Ma tant'è.
Parto effettivamente da lontano per cercare di portare avanti un concetto ed un ragionamento che mi stanno a cuore. Spero almeno di arrivare alla fine.
Quel grande storico francese del secolo scorso, Fernand Braudel, sosteneva, non ricordo in quale dei suoi numerosi saggi, che in qualche misura siamo tutti figli dell'Ellade. Volendo con ciò dimostrare una certa discendenza e dipendenza culturale in senso lato del mondo occidentale dalla Grecia, per quanto ha rappresentato, per quello che è stata. Penso alludesse, tra l'altro, al fatto che in Grecia è nata la democrazia, che la filosofia, l'arte, la storiografia, la poesia ed altre manifestazioni dell'animo dell'uomo sono germogliate in quella terra. Tutto quanto è venuto dopo è in parte figlio spirituale della Grecia, ha usato quei mattoni per costruirsi la propria casa, diversa dalla prima, ma con sostanziali elementi in comune.
Ricalcando però concetti già espressi da altri, mi parrebbe giusto e doveroso aggiungere che l'Occidente è sì un'emanazione della cultura e civiltà greche, ma che ha un altro pilastro su cui si regge e mi riferisco a Roma ed a quanto
ha rappresentato ed in parte ancora fiocamente rappresenta in merito allo sviluppo socio-culturale del mondo in cui viviamo. Il Cristianesimo, infine, elemento catalizzatore e terreno di coltura, mi pare sia il terzo pilastro, in mancanza del quale non sarebbe stato possibile percorrere un certo cammino.
Roma e la cultura romana hanno sempre sofferto di un complesso di inferiorità nei confronti della Grecia. Non c'era giovane di buona famiglia che non ritenesse doveroso completare la propria formazione culturale in Grecia, tutta la letteratura romana trae spunto dai lirici greci. Non vorrei qui dilungarmi in una inutile "guerra" tra Roma ed Atene, non vorrei alludere al pragmatismo romano, a quanto Roma ci ha lasciato in campo amministrativo, giuridico ed architettonico, alle differenze sostanziali tra le città greche chiuse in sé stesse e l'apertura del mondo romano.
Vorrei però difendere, per quanto in mio potere, il latino, il tanto bistrattato latino, odiato e temuto nelle scuole, considerato ormai lingua morta ed inutile. Ricordo i miei lontani anni del Liceo: anch'io non sfuggivo alla regola; avevo paura del latino, mi sembrava una cosa inutile, una perdita di tempo. Con il passare del tempo - tanto - ho ripreso in mano qualche vecchio testo scolastico ed ho iniziato un percorso che mi ha condotto ad una piacevole riconsiderazione di quanto pensavo. Piano piano ho riletto qualcosa di quegli autori che allora mi sembravano marziani, ho imparato ad apprezzarli e ad amarli.
Chi non conosce il mondo classico, ed in questo caso il mondo di Roma, ha una visione monca delle eterne problematiche della vita, dei meccanismi che regolano quell'entità assurdamente meravigliosa che è l'animo umano. Chi non ha letto la letteratura latina e la poesia latina, forse non lo sa, ma manca di qualcosa ed ha conseguentemente una visione più ristretta del mondo che lo circonda ed in cui vive. Mi piace ricordare un grande traduttore di autori latini, Luca Canali, il quale afferma in una sua opera che "...fra un ingegnere intelligente che ha letto Lucrezio e Petronio (e magari anche Proust e Joyce) e un ingegnere ugualmente intelligente che non li ha letti, costruirà migliori ponti e strade il primo."
Anche sul piano lessico-grammaticale il latino ha sempre subito veri attacchi. Leggendo i classici e proseguendo nel tempo, si notano già digressioni e notevoli licenze rispetto all'impianto grammticale latino, di per sé molto rigido ed equilibrato.
Il nostro stesso italiano che del latino è un'ovvia emanazione, lo ha logicamente ed inevitabilmente stravolto, come ci insegna una qualsiasi grammatica storica della nostra lingua. La tradizione popolare ha curiosamente "tradotto" in italiano preghiere e formule in maniera non aderente al testo ed al significato primari. "Agnus Dei, qui tollis peccata mundi" è stato ad esempio forzatamente trasformato in "Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo", travalicando il vero significato di tollis, che sarebbe poi porti sopra di te, ti fai carico.
Perché dobbiamo continuamente sentire mal pronunciato il nominativo neutro plurale dell'aggettivo medius, che sta nel mezzo, quando si vuole alludere ai mezzi di informazione quali la stampa scritta e parlata?
Perché iunior, comparativo di iuvenis, deve essere pronunciato e scritto all'inglese ed uguale sorte deve toccare a senior, semplice comparativo di senex?
Gli scambi ed i prestiti tra le varie lingue ci sono sempre stati e sempre ci saranno, ma il latino è una lingua morta, non può più difendersi. Lasciamolo almeno dormire in pace, se non vogliamo o non possiamo apprezzarne e gustarne l'eleganza, la musicalità e la perfezione.
Bere una buona bottiglia di vino...
Bere una buona bottiglia di vino. Non vorrei apparire presuntuoso, ma l'operazione che noi tutti compiamo quando affidiamo ai nostri sensi l'analisi e la valutazione di quel meraviglioso prodotto dell'uva che è il vino, quando lo facciamo-dicevo-siamo arrivati all'ultima tappa di un lungo percorso propedeutico. In altre parole, ho sempre pensato che la fase della degustazione debba necessariamente essere preceduta da un lungo e meditato percorso di studio e di ricerca, in relazione al prodotto finale.
Veronelli, un grande, diceva che il vino si beve PRIMA con gli occhi. A mio parere aveva pienamente ragione ed io aggiungerei che sono molte altre le componenti che aiutano a bere BENE un vino. Ovviamente non si può prescindere dal produttore, su cui si dovrebbero acquisire quante più informazioni possibili; non tralascerei sicuramente l'etichetta del vino
stesso, la capsula, la bottiglia utilizzata e-non sicuramente ultimo elemento-il nome del vino.
Queste mie sgangherate teorie nascono anche, in parte, dall'avere letto tanto ed in maniera abbastanza approfondita, sul mondo che circonda ed avvolge il vino, un mondo che va saputo interpretare e che volutamente spesso nasconde elementi essenziali alla conoscenza.
Veronelli è stato il primo, insieme a Mario Soldati, ad occuparsi in maniera sistematica, dell'enogastronomia italiana e non, sin dagli ormai lontani anni 50. Viveva, Veronelli, in quello scrigno architettonico che è Bergamo Alta; era circondato dalla bellezza alla sua massima espressione, aveva una profonda cultura umanistica unita ad una sana ironia e ad un gusto della vita che gli permettevano di affrontare con delicatezza e leggerezza quanto si era proposto di fare. E lo faceva bene: le sue non erano semplici ed aride recensioni enologiche, ma piuttosto considerazioni filosofiche, sociologiche ed antropologiche nelle quali il prodotto vino sembrava avere un'importanza del tutto secondaria.
Non amo quindi i vari Parker o Wine Spectator che, con tipico approccio "yankee" si limitano a classificare i vini inserendoli
e restringendoli in fredde graduatorie e classifiche, secondo punteggi del tutto opinabili. Il primo ha scritto, tra l'altro, monumentali tomi sui vini del Bordolese, ma non trovo in queste descrizioni quello che vorrei, oltre ovviamente una precisa e rigorosa descrizione analitica del vino. Il secondo terrorizza il mondo internazionale con le graduatorie, soprattutto quelle di fine anno, con i top ten e, finalmente, con il miglior vino del mondo. Come si può assegnare un "titolo" del genere, prescindendo da tutta una serie di considerazioni, valutazioni e conoscenze dirette di un numero davvero grande di elementi? Mah.
Venendo ora ai produttori, agli uomini, al loro cuore, al loro sentire ed al loro interfacciarsi con quanto li circonda quotidianamente, penso all'architetto Salvatore Geraci e me lo immagino camminare tra le vigne di nerello mascalese in una tiepida mattina primaverile, sulle colline sovrastanti Messina e lo Stretto, in completo di lino bianco e panama. Si deve a lui, in gran parte, la rinascita di un vino ormai quasi dimentiacato. Il Faro Palari, a mio parere il meno siciliano dei vini di quella stupenda terra; penso che in comparazioni mascherate nulla avrebbe a che invidiare ad un bordolese. Come si può capire questo vino davvero superbo, prescindendo da quanto sopra e da tanto altro?
Il mitico Trebbiano di Edoardo Valentini e ora del figlio. Un vitigno da sempre ritenuto di "appoggio" osmotico ad altri vitigni, con Valentini padre è diventato un monumento, una colonna portante dell'enologia nazionale. Ma Valentini era un vero "contadino" del vino, un uomo che non ha mai ceduto a facili compromessi, duro ed inflessibilmente sano come la sua terra d'Abruzzo.
E che dire di Gravner? Già dal suo modo di vestire, di camminare, di muoversi, si comprende perché produca-lui solo-quei vini veramente unici. Dopo varie sperimentazioni, alcune delle quali discutibili, ha stupito ed emozionato con le sue anfore, con i suoi invecchiamenti eccezionalmente lunghi sui bianchi. Ovviamente non lo conosco, ma penso a come possa avere reagito, nel corso degli anni, a talune critiche davvero pesanti mosse ai suoi vini. I suoi vini sono asciutti, decisi, essenziali. Lui è deciso, secco, asciutto ed essenziale.
Veronelli, un grande, diceva che il vino si beve PRIMA con gli occhi. A mio parere aveva pienamente ragione ed io aggiungerei che sono molte altre le componenti che aiutano a bere BENE un vino. Ovviamente non si può prescindere dal produttore, su cui si dovrebbero acquisire quante più informazioni possibili; non tralascerei sicuramente l'etichetta del vino
stesso, la capsula, la bottiglia utilizzata e-non sicuramente ultimo elemento-il nome del vino.
Queste mie sgangherate teorie nascono anche, in parte, dall'avere letto tanto ed in maniera abbastanza approfondita, sul mondo che circonda ed avvolge il vino, un mondo che va saputo interpretare e che volutamente spesso nasconde elementi essenziali alla conoscenza.
Veronelli è stato il primo, insieme a Mario Soldati, ad occuparsi in maniera sistematica, dell'enogastronomia italiana e non, sin dagli ormai lontani anni 50. Viveva, Veronelli, in quello scrigno architettonico che è Bergamo Alta; era circondato dalla bellezza alla sua massima espressione, aveva una profonda cultura umanistica unita ad una sana ironia e ad un gusto della vita che gli permettevano di affrontare con delicatezza e leggerezza quanto si era proposto di fare. E lo faceva bene: le sue non erano semplici ed aride recensioni enologiche, ma piuttosto considerazioni filosofiche, sociologiche ed antropologiche nelle quali il prodotto vino sembrava avere un'importanza del tutto secondaria.
Non amo quindi i vari Parker o Wine Spectator che, con tipico approccio "yankee" si limitano a classificare i vini inserendoli
e restringendoli in fredde graduatorie e classifiche, secondo punteggi del tutto opinabili. Il primo ha scritto, tra l'altro, monumentali tomi sui vini del Bordolese, ma non trovo in queste descrizioni quello che vorrei, oltre ovviamente una precisa e rigorosa descrizione analitica del vino. Il secondo terrorizza il mondo internazionale con le graduatorie, soprattutto quelle di fine anno, con i top ten e, finalmente, con il miglior vino del mondo. Come si può assegnare un "titolo" del genere, prescindendo da tutta una serie di considerazioni, valutazioni e conoscenze dirette di un numero davvero grande di elementi? Mah.
Venendo ora ai produttori, agli uomini, al loro cuore, al loro sentire ed al loro interfacciarsi con quanto li circonda quotidianamente, penso all'architetto Salvatore Geraci e me lo immagino camminare tra le vigne di nerello mascalese in una tiepida mattina primaverile, sulle colline sovrastanti Messina e lo Stretto, in completo di lino bianco e panama. Si deve a lui, in gran parte, la rinascita di un vino ormai quasi dimentiacato. Il Faro Palari, a mio parere il meno siciliano dei vini di quella stupenda terra; penso che in comparazioni mascherate nulla avrebbe a che invidiare ad un bordolese. Come si può capire questo vino davvero superbo, prescindendo da quanto sopra e da tanto altro?
Il mitico Trebbiano di Edoardo Valentini e ora del figlio. Un vitigno da sempre ritenuto di "appoggio" osmotico ad altri vitigni, con Valentini padre è diventato un monumento, una colonna portante dell'enologia nazionale. Ma Valentini era un vero "contadino" del vino, un uomo che non ha mai ceduto a facili compromessi, duro ed inflessibilmente sano come la sua terra d'Abruzzo.
E che dire di Gravner? Già dal suo modo di vestire, di camminare, di muoversi, si comprende perché produca-lui solo-quei vini veramente unici. Dopo varie sperimentazioni, alcune delle quali discutibili, ha stupito ed emozionato con le sue anfore, con i suoi invecchiamenti eccezionalmente lunghi sui bianchi. Ovviamente non lo conosco, ma penso a come possa avere reagito, nel corso degli anni, a talune critiche davvero pesanti mosse ai suoi vini. I suoi vini sono asciutti, decisi, essenziali. Lui è deciso, secco, asciutto ed essenziale.
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