giovedì 13 dicembre 2012

Storia e Geografia

Il grande storico francese del secolo scorso, Fernand Braudel, era un tenace sostenitore della teoria secondo la quale la storia è spesso figlia della geografia, delle condizioni climatiche che caratterizzano in maniera permanente alcune regioni del mondo. Sono anch'io convinto, in linea generale, della validità di questa tesi.
Il "generale inverno" ha fermato per due volte nella spazio di poco più di un secolo, due potenze nemiche che tentavano di invadere la Russia attraverso le sue sconfinate pianure, con risvolti e conseguenze inimmaginabili per il futuro dell'Europa e forse del mondo.
La guera russo-giapponese del 1905, conclusasi con la famosa battaglia di Tsushima e con la sconfitta della flotta russa reduce da una meravigliosa ed assurdamente romantica circumnavigazione dell'Africa, ebbe tra le sue cause scatenanti la necessità per la Russia di avere un porto, alle sue estremità orientali, alternativo a Vladivostok, inutilizzabile per parte dell'anno a causa del gelo.
Nel 1453 Costantinopoli cadde in mano ai Turchi ed ebbe fine il malandato Impero romano d'Oriente. Il fatto di per sé non avrebbe un peso eccezionale se non fosse che, con la caduta di Costantinopoli, si chiudeva la via delle spezie tracciata da Marco Polo, venivano ad essere interrotti i floridi commerci con l'Oriente. Venezia e Genova, le due Repubbliche marinare che avevano intessuto rapporti considerevoli con quelle lontane e favoleggiate regioni, si trovarono in forti difficoltà economiche. Genova soprattutto, città marinara ma anche  a forte vocazione mercantile, che svolgeva commerci qualitativamente pregiati con l'Oriente, per mezzo delle proprie navi che navigavano il Mar Nero sino alle estreme sponde orientali, per poi affidarsi alle carovane dei mercanti, Genova-dicevo-subì un contraccolpo notevole. La città nella quale era nata la prima banca al mondo, il Banco di San Giorgio, la città che fungeva da ponte commerciale tra il lontano Oriente e tutta l'Europa centro-settentrionale con le proprie complesse ramificazioni, si trovava ora a dovere interrompere tutto quanto aveva costruito nei decenni precedenti, tutto quanto le aveva dato prosperità, forza e ricchezza.
Fu a seguito quindi di un  puro impedimento fisico-geografico, dell'impossibilità di trovare una via alternativa che permettesse l'interscambio con l'Oriente che il Mediterraneo nel suo complesso e nella sua accezione più vasta si vide "costretto" a cercare un percorso diverso per non perdere la propria supremazia, la propria ricchezza...per non perdere la propria identità.
L'italianissimo Colombo si trovò al momento giusto nel posto sbagliato e, ragionevolmente certo della sfericità del globo,  si convinse e convinse Isabella di Spagna ed il recalcitrante Ferdinando ad intraprendere un viaggio che lo avrebbe portato dove lo ha portato e....ad essere probabilmente sepolto alcuni metri sotto una sala da biliardo di un bar di Valladolid.  Lo fecero forse viaggiare più da morto che da vivo!
Ma questa è un'altra storia e mi accorgo di divagare.
Intendevo solamente dare il mio pieno e modesto appoggio alla teoria di Braudel. Se non fosse stato per le spezie forse l'America sarebbe rimasta ancora per un po' a sonnecchiare nel suo  isolamento forzato, gli spagnoli ed i portoghesi non se la sarebbero "divisa" a Tordesillas, nel nome di Cristo non si sarebbero ammazzati tanti inermi e un po' di oro, più o meno oro, sarebbe rimasto al proprio posto.
Molto più privatamente, se non fosse stato per il vecchio Colombo, l'America del Sud non sarebbe entrata così prepotentemente nella mia vita.

Ci sono, a mio parere, varie tipologie di sudamericani, sul piano antropologico, sociologico e culturale.
Da un lato abbiamo gli argentini che sono e si sentono i primi della classe, forse anche per la consistente iniezione di sangue europeo a seguito delle immigrazioni dei primi anni del '900. Dal lato opposto abbiamo le popolazioni andine dell'Ecuador, della Bolivia, del Perù. Si sono dovute adattare morfologicamente alle altezze assurde alle quali vivono: sono generalmente non molto alti, forse per aiutare il cuore a pompare il sangue a distanze minori! Sono ragionevolmente le più "indigene" e le più lontane dall'Europa, nel pieno rispetto ovviamente delle loro identità culturali.
C'è poi una popolazione, a me sino a pochi anni addietro, sconosciuta ed ora a me cara, per certi aspetti.
La Colombia ed i colombiani. Mi pare si possano auto-collocare in una posizione intermedia tra le due cui accennavo sopra e che sfuggano pertanto ad una definizione precisa. La Colombia potrebbe per certi versi essere accostata all'Italia del dopoguerra, della fine degli anni cinquanta, degli anni del boom economico, con la meravigliosa voglia di vivere di allora, con quel modo di fare un po' naif che ci ha aiutato a risorgere,con quel rispetto delle regole che ci ha restituito la nostra dignità. La Colombia di oggi è un Paese nel quale si fanno i biglietti sugli autobus e nel quale ci si alza per fare sedere gli anziani, un Paese nel quale non ci si meraviglia di certi comportamenti che da noi inducono ad un sorriso di compatimento.
Non è certo un Paradiso, vive sotto l'ombrello americano da cui ha mediato pregi e difetti, ha un Pil in crescita, una buona inflazione annua, un brutto biglietto da visita relativamente al suo passato-presente in merito alla sua produzione e commercializzazione della famigerata polvere bianca. Insomma, partendo da dove è partita, non può e non deve fare altro che crescere.

Certo che è un altro mondo. Ma anche qui divago e torno su argomenti già trattati.
Mi preme sottolineare invece un fatto, del tutto normale, che accomuna la Colombia a tanti altri Paesi. Bogotà è geograficamente a quattro gradi  di latitudine nord rispetto all'equatore; il che fa sì che in Colombia non ci siano le stagioni o perlomeno che non ci siano per come lo intendiamo alle nostre latitudini. Pur essendo la capitale posizionata a 2.600 metri di altezza sulla cordigliera orientale, il clima è mite, direi primaverile, con escursioni termiche giornaliere contenute, ma minime su base annua.
A prima vista ed in occasione della prima visita in Colombia, ritenevo, come tanti, che la mancanza di stagioni fosse un enorme vantaggio sotto tutti i punti di vista ed effettivamente i vantaggi sul piano materiale sono molteplici ed innegabili, almeno per noi mediterranei. Con il passare del tempo e ragionandoci su in maniera meno superficiale mi sono però accorto che sbagliavo ed ho fatto e tratto le mie considerazioni in merito, sempre ovviamente non prescindendo dalle mie radici culturali e dai miei condizionamenti.
Mi rifaccio ad elementi di buon senso comune, direi casareccio. La terra è rotonda, il cerchio di Giotto è segno di perfezione, tutto quanto ci circonda e regola la nostra vita, a tutti i livelli, obbedisce a leggi che hanno nella circolarità e ripetitività la loro base. Ogni cosa ha un principio, un suo ciclo vitale più o meno lungo, ed una fine, sempre nel rispetto di regole circolari, eterne ed immutabili. Ad ogni tramonto seguirà un'alba illuminata da un sole sempre diverso e sempre uguale, ad ogni estate con i suoi eccessi termici succederà un inverno che ce la farà rimpiangere, ma che svolgerà la propria funzione sia sul piano meteorologico che nei confronti ed a favore del nostro equilibrio psichico. Alle nostre latitudini siamo abituati al continuo cambiamento della natura che ci circonda, cambiamento che ha sicuramente un effetto benefico su di noi anche perché ci accompagna nel nostro cammino terreno e ci aiuta a capire qualcosa di più in merito al mistero ed al senso della vita. Non mi pare si debba scomodare la filosofia o l'antropologia per arrivare a certe considerazioni che ritengo essere ovvie e valide più o meno per tutti noi.
Ebbene, in Colombia non ci sono le stagioni. Manca, sicuramente a me, ma non penso solo a me, tutto quanto ho tentato di....dire, di trasmettere. Come si può vivere in un posto in cui gli alberi sono sempre e tutti verdi, in cui il sole sorge e tramonta sempre alla stessa ora, in cui la temperatura è sempre la stessa, in cui tutto è sempre...sempre? Come può tutto ciò non avere influssi negativi sull'animo umano che ha bisogno del brutto per apprezzare il bello, del buio per godere della luce, di una fine per sperare in un nuovo principio?
Mah! Eppure ci sono milioni di colombiani che vivono felici e contenti e probabilmente non pensano mai alla loro condizione e non si arrovellano in elucubrazioni cervellotiche e sterili.

Certo è, per tornare sulla terra, che la mancanza di stagioni porta da un danno... serio ed incontrovertibile: la mancanza della coltivazione della vite e quindi la mancanza del vino. La vitis vinifera, nelle sue espressioni più plebee quali la bonarda o il lambrusco ed in quelle più nobili ed elevate quali lo chardonnay o il pinot, ha bisogno e necessità di affrontare e di sconfiggere le avversità meteorologiche connesse con le stagioni, per cui in Colombia non c'è traccia di questa vecchia e meravigliosa pianta.
Ciò non vuol dire che conseguentemente in Colombia non si beva vino. Certamente non è questa la bevanda principale con la quale si pasteggia, ma i vini argentini e cileni suppliscono egregiamente(? )alla mancanza di prodotti autoctoni. Quello che ritengo manchi al colombiano medio è la cultura del vino, sono i duemila anni che accompagnano noi italiani nella nostra storia, permeata e bagnata a tutti i livelli dal vino, dal Falerno di Orazio sino al Chianti del barone Ricasoli, dal vino debole e poco longevo del medioevo, al Brunello di alcuni storici produttori, che ci impone di misurarne la longevità in decadi.
Diciamo comunque la verità: i colombiani non conoscono il vino e quindi... non sanno bere. Mi è capitato spesso,  anche in ristoranti di nome e di tradizione, di vedere in bella mostra sui tavoli degli assurdi bicchieroni colmi di succhi di frutta con cui si accompagnavano robusti piatti di carne. Saranno perfetti sul piano salutistico e dietetico, ma sono realmente improponibili e mi sono sempre chiesto come riescano a berli in gioia e letizia. Penso non sia nel loro DNA stabilire un sano e corretto rapporto con il vino, con i giusti abbinamenti e con la tempistica che il buon bere richiede a chi si voglia accostare a quel mondo. Capita sovente, al ristorante, che il gentile cameriere di turno si affretti a chiedere cosa si voglia bere, prima ancora che i commensali abbiano avuto il tempo di consultare il menu. Se mi sembrano esagerate certe nostre esasperazioni in fatto di abbinamenti, seguendo a volte la smania di protagonismo del sommelier, mi pare altrettanto sbagliato il non volere affatto prendere in considerazione, seppure velocemente, quali possano essere le scelte in merito alla bevanda con cui pasteggiare e sul quando, come berla e perché.
Un capitolo a parte meriterebbero i prezzi dei vini di qualità che, ripeto, esistono e tutto quanto riguarda il percorso che viene fatto fare alla bottiglia sino al tavolo ed il suo conseguente trattamento da parte del cameriere che dà l'idea di maneggiare un qualcosa di estraneo a sé ed al suo quotidiano. Si capisce da tanti piccoli particolari che il rapporto con l'elemento vino è un qualcosa di artefatto, di forzoso, un qualcosa che lo costringe ad entrare in un terreno irto di incognite e di difficoltà. Apparirò pedante e noioso, ma mi pare normale quasi pretendere che determinate bottiglie-almeno quelle- subiscano una sorte adeguata al loro prezzo ed al rango ed al valore del vino in esse contenuto.
Uno sguardo all'interno delle poche enoteche ed una scorsa negli spazi dedicati al vino nei grandi supermercati, mi pare confermi l'andamento cui accennavo. Gli scaffali sono stracolmi per la maggior parte di vini cileni ed argentini, diligentemente divisi per tipologia e prezzo, in questo rispondendo ad una forte azione protezionistica che connota i mercati sudamericani. D'altra parte in questi due paesi troviamo alcuni giganteschi produttori quali la cilena Concha y Toro e l'argentina Penaflor che viaggiano intorno ai 150 milioni di bottiglie annue e che hanno quindi una necessità fisiologica di vendere i loro prodotti nell'immenso mercato potenziale del Sudamerica, prima di affidarsi ad una difficile e problematica escursione in terra europea. Tra le varie linee che le aziende propongono, si trovano vini di livello, venduti a prezzi correnti e corretti rapportati alla qualità.  Quanto ai vitigni, mi pare di poter dire che sono il carmenère ed il malbec a fare la parte del leone. Il vecchio carmenère, partito dall'Albania in epoca romana, dopo duemila anni di travagliata storia ampelografica, valica l'oceano insieme al classico bordolese malbec e si conquista nuova vita in Sudamerica, dopo decenni di oblio e di scarso utilizzo in Europa.  Non mancano infine alcuni "classici" provenienti dalla Spagna, la madrepatria per eccellenza, amata ed odiata. Niente di particolare, rispetto alle potenzialità iberiche, ma anche la Spagna risente probabilmente degli sbarramenti doganali, per cui i vini di livello superiore non vengono trattati in quanto avrebbero dei prezzi impossibili, tanto che sarebbero accessibili forse solamente a chi troverebbe più conveniente acquistarli direttamente in loco, in occasione del classico viaggio a Madrid.
Povera la nostra Italia enologica!  Il pochissimo vino presente è rappresentato da prodotti da supermercato di seconda categoria.  Vi è un' ignoranza pressoché totale rispetto rispetto alla nostra realtà enologica (nel senso di assoluta e totale non conoscenza di quello che accade nel Paese primo produttore di vino al mondo, nel Paese che ha sopravanzato la Francia quanto a volumi di vendita negli Stati Uniti). Probabilmente la responsabilità è da ricercare anche nei nostri produttori che non hanno sufficienti interessi ad essere realmente presenti su quel mercato. Comunque la situazione è desolante.
Non mi rimane altro da dire che nella maggior parte delle case colombiane è presente un robusto frullatore il quale viene utilizzato regolarmente per trasformare in frullati le enormi e variegate qualità di frutta che il mercato offre tutto l'anno. Queste bevande, insieme alla loro gradevole e diffusissima birra, sono i più forti antagonisti del vino e ne contrastano amabilmente la diffusione quotidiana. Basti considerare che il mio piatto preferito, con la straordinaria carne colombiana, è fortemente debitore all'impiego della birra.
Non si può avere tutto nella vita, come dicevano gli anziani.

mercoledì 19 ottobre 2011

Il vino ed il ristorante......amici-nemici.

Sono ormai passati definitivamente i tempi in cui, una volta entrati in un ristorante di medio calibro ed effettuata la "comanda", ci si  trovava di fronte alla più classica delle domande poste dal solerte cameriere di turno, circa la scelta del vino: "bianco o rosso?".
L'Italia enologica, l'antica Enotria, è finalmente uscita dal pantano nel quale vari condizionamenti storici, politici e soprattutto culturali l'avevano costretta. Sono stati fatti enormi passi avanti, qualitativamente, nei lavori in vigna, nelle nuove concezioni delle cantine, si è ricorsi a enologi che il mondo ci chiede e ci invidia, sono stati compiuti studi maniacali sulla composizione di un'etichetta, il marketing la fa da padrone nella lunga filiera che porta la bottiglia in tavola.
Non dobbiamo più litigare con i viticoltori francesi che a Sète assalirono le nostre navi cariche di robusti vini del nostro sud, destinati ad irrobustire quelli d'Oltralpe; il metanolo è un ricordo doloroso, ma lontano anche se i suoi effetti devastanti sulla nostra identità e dignità enoiche sono stati pari alle conseguenze negative che "Le mie prigioni" del Pellico hanno avuto sull'oppressione austriaca nei nostri territori.
Ci sono sì state delle "ricadute" quali i falsi di Sassicaia o i Brunelli del 2003 su cui si sono avute parecchie perplessità quanto ad integrità dell'uvaggio fissato dal Disciplinare, ma si è trattato fortunatamente di episodi che non hanno frenato la nostra crescita qualitativa e non hanno soprattutto riportato indietro di decenni il modo di ragionare e di agire dei nostri produttori.

Dato per scontato ed acquisito quanto sopra, tenendo sempre in debito e rigoroso conto il fatto che si tratta di opinioni del tutto personali e soggettive di un semplice appassionato, sono parzialmente d'accordo con chi sostiene la tesi che il percorso della bottiglia, una volta pronta e matura per la commercializzazione, ha anch'esso goduto ed usufruito dei netti miglioramenti di cui sopra. Dico parzialmente perché mi pare si possa ragionevolmente affermare che, entrare oggi nel classico medio ristorante italiano, in una qualsiasi località, in un giorno anonimo della settimana, pone chiunque di noi di fronte ad alcune considerazioni .
Il vino, lo si sa bene ed è universalmente accettato, ha dei "nemici" quali la temperatura non adeguata, gli odori, i rumori e le vibrazioni, l'esposizione ad una luce concentrata ed eccessiva, tanto per elencare i più classici e conosciuti. Ebbene, nella maggior parte dei nostri amati ristoranti, entrati in sala, ci si trova quasi sempre di fronte ad una bella famigliola di bottiglie poste su mensole, su basi di camini o comunque in altri luoghi che certamente non le dovrebbero ospitare. Tutte rigorosamente in posizione verticale a farsi compagnia come bei soldatini di piombo, pronte ad essere tolte dalla loro inidonea condizione dal cameriere che provvederà trionfalmente a portarle in tavola: uno sventurato brunello od un nobile barolo vengono così serviti a temperature assurde e perdono parte delle loro caratteristiche organolettiche, ove le stesse avessero avuto la ventura di conservarsi dopo mesi-almeno-di alloggio forzato.
Analoga sorte, seppure un tantino migliore subiscono i bianchi. Per evitare le giuste lamentele dei clienti sulle temperature spesso superiori a quelle di servizio, i vini vengono "abbattuti" violentemente, quando non posti in frigoriferi o luoghi similari che dovrebbero ovviare rapidamente al "danno". Più spesso li si porta a tavola alla temperatura in cui si trovano, li si affoga nel ghiaccio e sale dei cestelli e si invita il consumatore ad....aspettare. Le cantinette frigorifere sono poche, di bassa qualità e poco utilizzate, spesso poco capienti in rapporto al numero di etichette proposte, sì che la prima bottiglia scelta sarà a temperatura ideale, ma la seconda, per chi volesse fare un bis, risentirebbe sicuramente dei problemi di cui sopra.

Altra nota dolente riguarda la carta dei vini, croce e delizia per chi desideri mettere in pratica il cambiamento cui accennavo all'inizio di questa nota. La stessa lavora in sinergia, ove sia presente, con il sommelier o comunque con chi si occupa in maniera più specifica dell'elemento vino.
Bisogna riconoscere la validità di una figura come quella del sommelier, che dovrebbe intelligentemente e garbatamente guidarci in un mondo complesso ed articolato: la scelta o meno di un vino dipende da molti fattori, spesso legati fra di loro, non ultimo da quello economico. Trovo invece, purtroppo, che ci si trovi spesso ad avere a che fare con personaggi un tantino altezzosi, che tendano a schiacciarci con le loro conoscenze specifiche e che ci mettano in difficoltà nella scelta, spesso condizionata dalla fretta e dall'imbarazzo.
Per quanto mi riguarda, quando ne vedo la necessità, applico la tecnica napoleonica che voleva essere l'attacco la migliore forma di difesa, tiro fuori facilmente un po' della mia innata cattiveria ed inizio a fare notare   gli inevitabili errori presenti in ogni carta di vini. Quasi tutte contengono una buona dose di accenti sbagliati, soprattutto per i vini esteri, quasi tutte hanno qualche trascrizione inesatta relativa al vitigno che compone il vino o al vino stesso. Spesso sono presenti vini di grande pregio, ma la loro presenza è solo virtuale: non appena li si nomina risultano stranamente esauriti il giorno prima. Per non parlare delle annate, uno degli elementi fondanti delle carte: è raro trovare l'annata richiesta quando ne siano presenti più di una.
Se poi voglio essere più cattivo del solito, mi piace entrare in meandri pericolosi, ovviamente più per me che per il sommelier, con la particolarità che forse riesco a non fare trapelare la mia ignoranza o la mia conoscenza superficiale su quell'argomento specifico.
Ricordo di avere fatto un figurone chiedendo lumi sulle differenze strutturali fra un carmenère cileno ed il più nostrano "Carmenero" di Ca' del Bosco. Perché le querce europee devono essere abbattute a colpi di scure a differenza delle querce bianche americane, che devono invece essere segate? Perché le ostriche che i francesi chiamano creuses vogliono un agrumato e fresco muscadet de la Loire(Melon de Bourgogne), mentre per le più nobili belon bisognerà ricorrere al più classico degli abbinamenti e cioè ad uno champagne, meglio se ad un Blanc de Blancs? Perché la povera e dimenticata Tintilia, unico vitigno autoctono del Molise, è stata per troppo tempo imparentato erroneamente con il Bovale sardo?
La verità, a mio parere, è che il vino è ormai diventato un elemento fondamentale per un ristorante che voglia essere tale; non è più un semplice accessorio relegato in secondo piano rispetto al cibo e la carta dei vini, il modo e la maniera di servirli e di offrirli alla clientela - sempre più attenta - richiedono un'attenzione ed una accortezza che non è di tutti.
Oramai sono in tanti, sempre più numerosi, coloro che scelgono un ristorante invece di un altro anche per la presenza o meno di quelle che ritengo essere scelte ineludibili e non più procrastinabili a favore del nostro amico Allora sì, bianco o rosso non sarà più - ragionevolmente - determinante.

lunedì 10 ottobre 2011

Una favola italo-colombiana

C'era una volta, anzi, c'erano una volta un padre ed una madre che vivevano (felici?) in un piccolo paese dell'Italia di oggi. I nostri avevano una figlia cui volevano tanto bene; lei aspettava il suo principe azzurro, come in tutte le favole che si rispettino. Anche i due genitori avrebbero avuto piacere che fosse arrivato il famoso principe. Lui in effetti arrivò, ma da molto lontano e la portò molto lontano, in un posto chiamato Colombia.
I nostri due amici, superato il primo ovvio momento di smarrimento, riuscirono parzialmente a riprendere il governo dei propri sentimenti e delle proprie pulsioni e pensarono bene di andare a trovare la loro principessa.
Come Totò e Peppino, attraversarono l'Alto Adige, valicarono il vasto mare Oceano ed arrivarono finalmente a destinazione. Si ritrovarono in una città chiamata Medellìn.......Il suo nome incuteva loro una certa paura perché riportava alla loro mente situazioni ed episodi drammatici e pericolosi! I due si fecero però coraggio a vicenda, felici di rivedere la figlia ed il suo sorriso radioso e rassicurante e partirono dall'aeroporto alla volta della città, aiutati anche dalla presenza di una bella giornata di sole e da un clima più che mite. Il percorso in taxi confermò nella mente dei genitori il concetto sempre valido che vuole che si debbano trovare usanze diverse in ogni paese in cui ci si trovi e soprattutto che sia bene accettarle di buon grado.
I due infatti erano sì maturi ed un po' spaesati, ma mantenevano una discreta capacità analitica che derivava loro dal sapere usare in maniera almeno sufficiente i loro cervelli: alcune cose parvero loro essere almeno bizzarre, alcuni comportamenti umani sembrarono dettati da meccanismi e logiche strane.
Comunque i due giunsero felicemente in centro, o quanto meno a destinazione; superarono brillantemente anche un momento di difficoltà derivante dalle motivazioni appena addotte e si impadronirono finalmente dell'agognato appartamento nel quale avrebbero vissuto un mesetto con la loro principessa.
La figlia aveva fatto l'impossibile per far sì che tutto fosse pronto e conveniente, soprattutto in considerazione delle problematiche caratteriali- per usare un eufemismo- del di lei genitore; si percepiva chiaramente che stava vivendo un momento difficile, momento che avrebbe potuto portare tempeste e fulmini.
I due, o meglio, i tre si accorsero che dal cielo, il Padre Eterno si era un momento dedicato particolarmente
a loro ed era intervenuto in loro soccorso; i nostri eroi si fecero volentieri aiutare ed il temporale fu evitato e allontanato.
L'appartamento era carino, concepito un po' differentemente quanto a divisione ed utilizzo degli spazi, sempre ovviamente rispetto al vissuto dei due anziani genitori. In compenso offriva un insieme di suoni, di luci, di atmosfere che portarono i due a fermarsi un attimo a pensare e.....si sa che il cervello umano è spesso più veloce di molti sciocchi computer, sempre che si intenda dare alla parole veloce una valenza umana.
Le necessità impellenti riportarono sulla terra i due che cercarono, aiutati dalla principessa, di personalizzare gli ambienti, mettendo in atto la prima e più elementare forma di difesa di chi si trova lontano da cose, abitudini, mentalità che non sono proprie.
La casa infatti diventò un po'più casa anche perché, nel frattempo, i nostri avevano pensato di riempirla di cibarie ed i loro stomaci sazi avevano trasmetto gioia e fiducia ai loro cuori  in tempesta.
Giunse la sera di un lungo giorno, ricco di emozioni, di un lungo giorno nel corso del quale i loro occhi ed i loro cuori erano stati spennellati con varie mani di vernici di molti colori. Giunse la sera e la loro figlia tornò nel piccolo appartamento: con l'aiuto di tutto e di tutti si ricreò un'atmosfera particolare quale i tre non vivevano da molti anni. Non si parlò tanto ed intensamente di quel fenomeno meravigliosamente strano, anche se i tre si portarono  a lungo nella propria personale valigia dei ricordi e delle sensazioni quello che hanno provato in quel particolare momento. Scese la notte ed i tre dormirono. Pare essere la cosa più facile e naturale del mondo, ma per uno dei tre fu veramente una bella notte.

giovedì 19 maggio 2011

Ancora Colombia, sempre Colombia.....

Ricordo che da bambino, al mare, mi divertivo a costringere una palla a stare sott'acqua tenendola ferma con una mano. Quando la lasciavo, obbedendo ad una semplice legge fisica, schizzava in alto e riacquistava poi la sua posizione naturale.
Riprendendo forzatamente quanto già in parte raccontato, mi pare proprio di poter dire che la VITA in Colom-
bia segua quella semplice regola di cui parlavo prima. Ho infatti la netta impressione - non condivisa dai tanti con cui ho avuto modo di scambiare opinioni e pareri - che tutto si regga su di un ferreo controllo del quotidiano, in ogni manifestazione e sfaccettatura. I militari e la vigilanza privata sono onnipresenti e regolano e tengono sotto controllo lo svolgimento delle attività dei colombiani che accettano di buon grado questo stato di militarizzazione non tanto latente.
Anni, decenni di guerriglie con le FARC, i guerriglieri antigovernativi padroni incontrastati di buona parte del territorio nazionale,  grazie anche ad aperte connivenze con il potere centrale, hanno ormai "vaccinato" i colombiani che accettano di buon grado il pagamento di questa "tassa" pur di vivere una vita tranquilla, se così la possiamo chiamare. Penso siano convinti, almeno in parte, che un leggero allentamento della presenza militare e della conseguente deterrenza, porterebbe la "palla" a tornare velocemente verso l'alto, con conseguenze drammatiche e nefaste, sia a livello interno che internazionale, campo nel quale la Colombia sta faticosamente e lentamente tentando di rifarsi un abito nuovo e presentabile.

L'Europa e l'Occidente sono radicalmente cambiati dopo l'11 settembre, la vita è diventata più difficile per tutti, si ha sempre il timore che possa accadere qualcosa, nei luoghi affollati e non. La presenza, seppur discreta dei militari, è ovunque percepita ed anche noi siamo disposti a qualche piccola limitazione e verifica supplementare, dopo quanto è accaduto, anche dopo quella fatidica data.

In Colombia si raggiungono però dei livelli assurdi ed intollerabili per chi non vive tra di loro. Non si può entrare con l'automobile nel parcheggio di un supermercato o di un edificio sede di un ufficio pubblico se prima non ci si è fermati all'ingresso per sottoporre la macchina ad un controllo nella parte inferiore, potenziale portatrice, consapevole o meno, di ordigni esplosivi.
Qualunque edificio, almeno limitatamente ai quartieri diciamo così....occidentali, è vigilato nelle 24 ore da portieri armati, chiusi all'interno dei loro gabbiotti e ben attenti a chi entra ed a chi esce. Ben diversamente da come si muovono svogliatamente i nostri residui portieri, questi sono invece sempre pronti a fare entrare un "estraneo" al palazzo, solo dopo aver avuto contezza delle sue generalità e della sua "destinazione" all'interno dell'edificio. Mi si dice che ciò costituisca un elemento di sicurezza in più, ma ....insomma.....ci sarebbe molto da dire e da obiettare.
La polizia ed i militari, spesso giovani alle prime armi, sono fortemente presenti dappertutto, con dotazioni di armi che potrebbero compiere delle stragi, ove erroneamente e troppo facilmente impiegate. I costi di mantenimento di questo formidabile apparato- mi si passi il termine - un po' di cartone se rapportato con quello di altri eserciti occidentali, meno appariscente ma sicuramente più concreto ed efficiente..... , i costi, dicevo, dovrebbero essere elevatissimi. Con conseguente ovvia sottrazione di risorse che potrebbero essere destinate altrove........, e ce ne sarebbe davvero tanto bisogno.
Sarà l'età che sicuramente condiziona e che contrasta con la meravigliosa e formidabile incoscienza giovanile, ma la mia impressione è che ci sia una sottile e leggera "paura" di tutto e per tutto. Si gira per strada, ci si rapporta con gli altri, ci si muove e.....si vive sempre con un po' di ansia. Mi si dirà, e mi è stato detto più volte, che ciò capita in tutte le grandi metropoli, che ci sono quartieri e quartieri, che tutto il mondo è paese.
Sarà anche vero, ma a Milano si può entrare in una qualunque banca, telefonare con il telefonino e presentarsi allo sportello con la mamma,la zia o un amico.  In Colombia non lo si può fare per paura che si possa avvisare  un complice all'esterno o che si possa costringere l'accompagnatore allo sportello a compiere un prelievo non voluto.
A Milano non ci saranno sicuramente tutti i taxi di Bogotà, ma chiunque ne intravveda uno, lo può tranquillamente fermare per strada. Pagherà una cifra spropositata, combatterà con il traffico, ma arriverà a destinazione. In Colombia, chi si avventura in un taxi all'uscita ad esempio di un centro commerciale, deve lasciare una sorta di "testamento" con intenzioni di viaggio e notizie varie che vengono diligentemente annotate da un solerte addetto che in pratica garantisce la partenza e soprattutto....l'arrivo.
Un altro degli aspetti figlio di questa militarizzazione, ma questa volta direi burocratica è costituito dalla richiesta reiterata ed incessante di un elemento indispensabile per chi voglia vivere da turista in questa terra nella quale, a mio parere, la logica è stata bandita. Parlo di quel libretto che ormai si usa sempre meno in molti paesi del mondo e che comunque si usa in genere un paio di volte nel corso del viaggio: il PASSAPORTO.
Viene ottusamente chiesto e richiesto più e più volte al giorno, per abilitarti a compiere le azioni più banali e normali; si entra in un negozio e si spendono pochi euro? Bene, ti chiedono il passaporto, ti "schedano" diligentemente e ti lasciano con un sorriso a mezza via tra il compiacimento ed altro..........! Per qualunque azione tu compia ed in qualunque maniera tu ti rapporti con loro non si può fare nulla senza il passaporto.
A cosa poi realmente serva, penso nessuno sia in grado di rispondere. Parrebbe essere una forma di tranquillità per loro: sanno chi sei, da dove vieni, cosa fai e quindi si sentono meglio, quasi avessero paura di essere colpiti a tradimento. Mi ricorda un po' Il deserto dei Tartari.
Mi fa sorridere ricordare la polemica nostrana di qualche tempo fa quando una nostra parte politica voleva giustamente prendere le impronte ai Rom. Apriti cielo! Si levarono in volo le prefiche garantiste, invocando il diritto alla privacy, la libertà di movimento, la dignità dell'uomo violata......!
Nella meravigliosa ed assurda terra di Colombia, non gli stranieri soltanto, ma gli indigeni sono sottoposti a questa pratica medioevale ogni qualvolta necessitano di qualche documento rilasciato da uffici pubblici all'interno dei quali campeggiano, in bella vista, enormi tamponi inchiostrati che li attendono. In compenso però,viene poi fornito ai sudditi un delicato pezzetto di garza imbevuto di alcol, quasi a voler loro restituire la verginità violata e perduta.
Lo so da solo, sono perfido. Non sono il classico viaggiatore che va per il mondo ed assorbe positivamente quanto vede, sente, mangia. Mi consolo pensando a quanto mi diceva una persona a me poco simpatica, che forse aveva già intuito gli sviluppi del mio pessimo carattere: sotto il cielo c'è posto per tutti.
Come diceva Baudelaire, sarò virtuoso, domani. L'ho già detto, ma lo ripeto per consolarmi.



 

martedì 12 aprile 2011

Colombia, mia figlia, la mia vita...

Aveva ragione mio padre. Come spesso gli accadeva aveva ragione mio padre. Aveva ragione quando mi ripeteva spesso che la realtà della vita quotidiana è superiore alla fantasia di qualsiasi romanzo.
Chi mai avrebbe infatti potuto prevedere, nel mio caso personale ovviamente, che avrei potuto e dovuto legarmi indissolubilmente ad una realtà umana, sociale e geografica come la Colombia, tanto assurdamente lontana da me e dal mio vissuto? Per la maggior parte degli europei medi, la Colombia è sì collocabile all'interno dell'America- Latina, ma in maniera vaga ed approssimata, tanto dal poterla forse confondere con alcuni degli stati con essa confinanti.  La leghiamo orgogliosamente a Colombo, pensiamo agli spagnoli, al trattato di Tordesillas che divideva le zone di influenza futura tra loro ed i portoghesi, pensiamo ai Conquistadores ed a quanto hanno fatto di male (molto) e di bene (assai poco). Pensiamo infine alla droga, al cartello di Medellin!
I luoghi comuni sono purtroppo i più difficili da gestire correttamente. Non siamo forse noi italiani, per gli altri, un popolo di pizzaioli, di mandolinari e di mafiosi?
Da un paio d'anni a questa parte la Colombia è prepotentemente entrata nei meandri della mia vita, condizionandola in parte, sia positivamente che negativamente. Mia figlia ha pensato bene di trasferirsi là, creando inevitabilmente un forte polo di attrazione umano ed affettivo nei miei confronti.
Per non apparire ipocrita e per sgombrare subito il campo da facili malintesi, devo dire che, al di là di quelle che sono le mie valutazioni personali sulla sua scelta di vita, l'impatto con la nazione Colombia è stato negativo.
Ho "odiato"  ferocemente la Colombia perché mi ha portato via una figlia, perché me l'ha portata tanto lontano ed anche - forse - perché si ha sempre più paura di ciò che non si conosce e di ciò che è tanto diverso da noi.
Devo anche confessare, in vena di outing, che ho approcciato la Colombia con l'atteggiamento del coloniale che giudica quanto gli sta intorno con una certa aria di sufficienza e di superiorità. Probabilmente, in parte, per "vendicarmi" del furto di una figlia. E non mi si venga a dire, per cortesia, che i figli non sono "roba" nostra, che l'importante è che stiano bene loro, al di là delle scelte e dei luoghi, che noi dobbiamo accettare....soffrire!
Tutte belle parole che non trovano riscontro facilmente nell'animo umano.
Come diceva il Poeta: "intender no lo può..........."
Comunque.
Certo è che il mio primo arrivo all'aeroporto di Bogotà, Eldorado, non mi ha aiutato molto a disfarmi di questa non nobile zavorra. Al di là dello stato di provvisorietà di tutta la struttura, in fase di un rinnovamento epocale quanto tardo a venire, la prima cosa che si nota è la forte presenza di militari e di addetti vari che ti
condizionano nei movimenti e soprattutto nei pensieri, presenti e futuri. Cercando di spiegarmi meglio, dirò che si percepisce subito quella triste aria di militarizzazione tipica di tanta letteratura e filmografia sud-americana e - purtroppo- di tanta realtà vissuta sulla pelle degli uomini. Chi verifica i passaporti lo fa con un'aria stanca e molto sufficiente, forse dimenticando e non tenendo in debito conto che il portatore del passaporto è o potrà essere un futuro contribuente per il miglioramento delle condizioni della sua Patria. Come nelle nazioni islamiche vige un concetto teocratico della Stato, così in Sud-America molto, per non dire tutto, si regge sul potere forte dell'esercito e della polizia, sebbene moderato e mitigato da una forma di democrazia che vorrebbe copiare quella occidentale, con risultati non sempre pari alle intenzioni. Pare ci sia un asservimento ottuso dell'intelligenza personale e collettiva ad un disegno maggiore, ad un forte bisogno di ordine e di pace tanto a lungo desiderati e sperati, asservimento che disorienta l'europeo o comunque chi ha da tempo raggiunto queste condizioni sociali. Non cozza forse contro la logica " subire " una perquisizione personale abbastanza accurata, tra l'altro, all'arrivo di un volo dall'Europa ed in uscita da un aeroporto?
Mah!
La Colombia è però una nazione "socialmente e strutturalmente" giovane e....direi naive. Tra le iniziative che non troverebbero più spazio nella vecchia e stanca Italia ce n'è una a mio parere furba ed intelligente. Al ritiro dei bagagli in aeroporto, una graziosa fanciulla controlla e verifica che il tagliando attaccato alla nostra valigia corrisponda alla ricevuta attaccata al nostro biglietto onde evitare spiacevoli "contrattempi".
Stessa manovra, anche se con motivazioni in parte diverse, vale per i taxi, croce e delizia di quanti arrivano in un Paese sconosciuto e fra i primi biglietti da visita, spesso non gradevolissimi. Si viene militarmente incolonnati ed indirizzati ad un chiosco che, a fronte della presentazione della nostra meta, ci rilascia uno scontrino attestante l'importo già pagato e la nostra destinazione onde evitare contrattazioni sul prezzo, malintesi e sforzi linguistici con l'autista.

martedì 1 febbraio 2011

Orazio e l'animus aequus.

Erano belli gli anni del liceo.....
Che c'entra con Orazio? C'entra; almeno per me. Una mattina di novembre di ormai tanti anni fa, siamo
partiti dalla stazione della mia città. Eravamo un piccolo gruppo di giovani di belle speranze e pensavamo di andare a risolvere i problemi del mondo, o almeno quelli cui si trovava allora a dovere fronteggiare la città di Firenze dopo l'alluvione e l'esondazione dell'Arno. Non ci aveva costretto nessuno e non lo facevamo, una volta tanto, per perdere qualche giorno di scuola. Semplicemente ci muoveva il desiderio di contribuire in piccolissima parte - e di questo eravamo certi - ad aiutare chi era stato travolto da quell'inaspettata catastrofe.  Giravamo per la città con degli enormi stivaloni ed armati di un badile, pronti a spalare e rigettare in Arno, anche se metaforicamente, un po' di quel fango che il fiume aveva irrispettosamente sputato sui monumenti, sulle case, sulle chiese, su tutto. Ci sentivamo dei piccoli salvatori della Patria: allora non c'era la Protezione Civile ed il volontariato non aveva l'organizzazione ed i numeri odierni; c'erano i pompieri, i fiorentini ed un sacco di persone, giovani e non, disposte e pronte ad aiutare nel modo migliore possibile. Ancora oggi ripenso con piacere e con orgoglio alle faticose cordate umane costituite per estarre dal fango le centinaia di migliaia di volumi della Biblioteca Nazionale. Una piccola quantità di medicina che ancora oggi ha su di me i suoi effetti positivi e che contribuisce ad aumentare l'elenco, in verità scarso, delle cose buone che penso di avere fatto. E poi, col Manzoni, spero sia vero che il Padre Eterno perdona tante cose cattive a fronte di una buona.
Che c'entra con Orazio?  C'entra.
Sono stato rimandato in latino in seconda media ed il professore che mi ha aiutato in quell'estate a recuperare terreno, mi ha fatto amare questa lingua. Allora era uno spauracchio per tanti, insieme al greco che sarebbe arrivato al ginnasio Stranamente a me è piaciuta sempre più, da allora, compatibilmente ovviamente con l'età e con la capacità limitata di capirne il significato più profondo.
Orazio è sempre stato, sin da allora, il mio autore preferito. Non mi chiedevo il perché; semplicemente leggevo volentieri, pur in un contesto scolastico, quanto ci veniva proposto e....mi piaceva, mi faceva piacere leggerlo.
Dopo molti anni, con tanta polvere posata sulle spalle e tanta vita passata sopra, ho ripreso in mano i classici e sono tornato al mio autore preferito.  Sembra che il tempo non sia passato. Purtroppo non è così e, se da un lato certe sensazioni che provavo allora sono molto simili, certamente l'età mi aiuta a cogliere di più e meglio.
Come allora non posso non provare un piacere interiore nel rileggere l'Ode in cui il mar Tirreno si "affatica" contro gli scogli e non posso evitare di farmi trasportare troppo lontano ed in effetti mi piace farmi trasportare. Come allora penso all'"inviso cipresso", triste, ma anche dolce riflessione.
Il mio pensiero però corre sempre alla undicesima epistola del primo Libro. Le epistole sono dell'Orazio
ormai maturo e quindi racchiudono inevitabilmente la sua filosofia della vita. Secondo i critici non raggiungono le vette liriche delle Odi, la loro perfezione stlistico-lessicale e non ne hanno neppure la musicalità e rotondità semantica. Sarà vero sicuramente, ma per me l'Epistola a Bullazio contiene alcuni concetti fondamentali in cui mi sono specchiato in gran parte della mia vita; mi pare di rivedere me stesso, perfettamente declinato ed esamnato ai raggi x.
Allora crtamente non lo sapevo e non lo potevo sapere, ma penso sia per questo che l'ho sempre portata con me e mi ci sono sempre ritrovato, nel bene e nel male. Ritengo che ognuno di noi trovi, nel corso del proprio cammino, degli indizi, dei dati allora insignificanti, ma che poi ritornano nel presente e ti permettono di ricollegarti al tuo passato remoto.
Sia come sia, Orazio/Bullazio, non sfuggendo l'autore al vezzo di inventare un alter ego cui rivolgersi che altri non è chi scrive, pone sul tappeto una meravigliosa e, per me, drammatica questione.
" Caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt " A mio parere un verso tra i più belli e non solo di Orazio. Racchiude alcuni concetti infiniti come il cielo, il mare e l'animo umano e li contrappone inevitabilmente, inducendoci ad una riflessione che, per quanto mi riguarda, mi schiaccia con il suo peso.
Mi spiace confessarlo, ma questo concetto lo sento mio, napoleonicamente e presuntuosamente mio. Tutta la mia vita è stata contrassegnata dal non essere mai a mio agio in nessun posto e dal cercare disperatamente un luogo, fisico e mentale, dove posarmi. Non ci sono mai riuscito e penso che oramai non ci riuscirò più.
Mi manca una condizione d'animo facilmente classificabile e definibile: l'animo equilibrato ed equidistante dagli eccessi delle passioni; in poche parole non ho l'"animus aequus". Mi consola sapere che la mia condizione fosse ampiamente condivisa da Orazio che si definiva, in un'altra Epistola, "ventosus", instabile e volubile come il vento e non trovava luogo ove appagare la sua frenesia cinetica.
Quanto espresso dal Nostro viene da lontano, da Socrate, e va lontano. Seneca, anch'egli nelle Lettere,  riprende il concetto con un lapidario "Tecum sunt quae fugis"; Marco Aurelio parla di ricerca all'interno di noi stessi per risolvere i nostri problemi; il Boileau ci dice che la tranquillità interiore non ci farebbe distinguere la differenza tra Cuzco e Parigi; l'ultima notte dell'Innominato manzoniano è turbata dal pensiero che "lui" sarebbe stato sempre con sé.
Le giovani ragazze della buona borghesia americana degli anni Trenta, innamorate sconvenientemente per ceto e censo, erano prontamente spedite in lunghe crociere in Europa, al fine di dimenticare ed essere dimenticate. Chi non ricorda la splendida Sabrina di Audrey Hepburn, in partenza per Parigi a bordo del Normandie?

E' curioso notare che sia Orazio che Seneca usino sì - ovviamente - due verbi di moto, ma che questi due verbi contengano ambedue un moto accelerato e rapido, a significare il vano tentativo di "fuggire"
un'inquietudine in maniera disordinata ed irrazionale.
Non vi è soluzione, chi non possiede la tranquillità interiore è destinato a girovagare fisicamente ed anche mentalmente senza trovare pace alla "strenua inertia". Chi invece si trova nella felice condizione opposta, vivrà bene anche ad Ulubre, sperduto agglomerato dell'agro Pontino, ricordato da Cicerone ai familiari per....le ranocchie.
Potrei e forse vorrei andare oltre, ma mi fermo.....per decenza!
A proposito, che c'entra Orazio?
Quella famosa mattina di novembre mi teneva compagnia, in treno, con questa Epistola. Sapevo di dovere essere interrogato la settimana seguente e la spedizione fiorentina non mi poneva giustamente in una posizione preferenziale agli occhi dei" terribili" professori di allora.

domenica 30 gennaio 2011

Mi manca...

Come tutti gli appassionati del settore, credo di avere assaggiato una notevole quantità di vini, da quando ho iniziato a fare parte di questa schiera di......eletti. Ovviamente ho i miei gusti, le mie preferenze, le mie tipologie. Mi sono creato un piccolo archivio gustativo-mentale ed oramai mi discosto difficilmente da quello e dalla strada tracciata e consolidata. Sono, a torto o a ragione, un conservatore per cui difficilmente mi apro a novità dell'ultima ora anche perché ritengo che il mondo del vino sia regolato e governato da determinate regole. Il terroir, i vitigni, la vinificazione e gli affinamenti sono in pratica quelli e quelli restano, pur con il passare delle mode e dei tempi. L'uso massiccio del legno piccolo ha infine contribuito ad un livellamento del vino, livellamento che ha forse danneggiato il prodotto di qualità ed ha favorito chi stava nel medio, snaturando in parte
concetti evolutivi e tecniche enologiche vecchi di secoli.
Per quanto mi riguarda, come dicevo, mi sono costruito il mio personale piccolo "harem" del vino ed ormai mi muovo in quello, senza grandi sortite che - riconosco - a volte sarebbero doverose e salutari.
Mi piacerebbe però, a proposito di sortite, lanciarmi verso un vino particolare che inseguo.  inutilmente, da qualche anno: il Vin de Constance, un vino da dessert  dell'emisfero australe, forse il migliore ed il più raro. Nasce nella seconda metà del '600 in Sud Africa, nella zona di Città del Capo, prodotto dalla tenuta Klein Constantia che ha i propri vigneti proprio nella zona pianeggiante sotto la Table Mountain. I cloni sono quelli del moscato, presente un po' dappertutto nelle sue svariate declinazioni, del muscat de Frontignan, proveniente dal sud-ovest della Francia. Ebbe, nel Settecento e nell'Ottocento, grande fortuna in Europa, limitatamente ovviamente a quei pochi che se lo  potevano permettere, e per motivi economici, e per zone e Paesi di influenza culturale e di collegamenti che poteva avere l'Olanda del tempo.
Come il Porto ed il Madeira, veniva bevuto solo a certe tavole. Anche se è ormai appurato che Napoleone sia morto di un cancro allo stomaco, alcune leggende vorrebbero che il veleno che lo portò alla morte fosse stato diluito in un bicchiere di Vin de Constance.
Alla fine dell'Ottocento, la fortuna e la vita di questo vino vengono annientati dalla fillossera. Per circa un secolo del vino non c'è più traccia, sino a quando -  verso la fine del Novecento -  l'azienda viene acquistata da Duggie Jooste che la fa letteralmente rinascere a nuova vita e, nei circa 70 ettari vitati, viene reimpiantato anche il moscato. Con un lavoro meticoloso e paziente si fa il possibile per ricreare le condizioni ottimali che hanno poi permesso al Vin de Constance di essere nuovamente presente, seppure limitatamente a certi mercati e con quantità irrisorie, rispetto alle richieste.
Risulterebbe avere colore giallo oro, dolcezza equilibrata dall'acidità, con la menta ed il limone che testimoniano del clima
marittimo e temperato della zona di produzione. Particolare da non sottovalutare risulta il non essere necessariamente e sempre botritizzato, discostandosi in questo radicalmente dai Sauternes. Quattro anni di barrique concorrono a completare il quadro e ad alimentare la mia curiosità.
Pare sia commercializzato prevalentemente negli Stati Uniti e nell'Europa del Nord. Non è certamente un caso che la sola degustazione verticale di questo vino in Italia si sia tenuta all'Azienda Querciabella di Greve in Chianti, presenti Tachis e Veronelli !  Certo, non sono più i tempi in cui, alla metà dell'Ottocento, ai tavoli del mitico ristorante parigino del Palais- Royal, i "Trois Frères Provencaux" si poteva ordinare una mezza bottiglia di Vin de Constance a 12 franchi, ma chissà che non mi riesca prima o poi di "agguantarne " una bottiglia e chiudere forse il cerchio, soddisfacendo una delle mie ultime curiosità enologiche.