Erano belli gli anni del liceo.....
Che c'entra con Orazio? C'entra; almeno per me. Una mattina di novembre di ormai tanti anni fa, siamo
partiti dalla stazione della mia città. Eravamo un piccolo gruppo di giovani di belle speranze e pensavamo di andare a risolvere i problemi del mondo, o almeno quelli cui si trovava allora a dovere fronteggiare la città di Firenze dopo l'alluvione e l'esondazione dell'Arno. Non ci aveva costretto nessuno e non lo facevamo, una volta tanto, per perdere qualche giorno di scuola. Semplicemente ci muoveva il desiderio di contribuire in piccolissima parte - e di questo eravamo certi - ad aiutare chi era stato travolto da quell'inaspettata catastrofe. Giravamo per la città con degli enormi stivaloni ed armati di un badile, pronti a spalare e rigettare in Arno, anche se metaforicamente, un po' di quel fango che il fiume aveva irrispettosamente sputato sui monumenti, sulle case, sulle chiese, su tutto. Ci sentivamo dei piccoli salvatori della Patria: allora non c'era la Protezione Civile ed il volontariato non aveva l'organizzazione ed i numeri odierni; c'erano i pompieri, i fiorentini ed un sacco di persone, giovani e non, disposte e pronte ad aiutare nel modo migliore possibile. Ancora oggi ripenso con piacere e con orgoglio alle faticose cordate umane costituite per estarre dal fango le centinaia di migliaia di volumi della Biblioteca Nazionale. Una piccola quantità di medicina che ancora oggi ha su di me i suoi effetti positivi e che contribuisce ad aumentare l'elenco, in verità scarso, delle cose buone che penso di avere fatto. E poi, col Manzoni, spero sia vero che il Padre Eterno perdona tante cose cattive a fronte di una buona.
Che c'entra con Orazio? C'entra.
Sono stato rimandato in latino in seconda media ed il professore che mi ha aiutato in quell'estate a recuperare terreno, mi ha fatto amare questa lingua. Allora era uno spauracchio per tanti, insieme al greco che sarebbe arrivato al ginnasio Stranamente a me è piaciuta sempre più, da allora, compatibilmente ovviamente con l'età e con la capacità limitata di capirne il significato più profondo.
Orazio è sempre stato, sin da allora, il mio autore preferito. Non mi chiedevo il perché; semplicemente leggevo volentieri, pur in un contesto scolastico, quanto ci veniva proposto e....mi piaceva, mi faceva piacere leggerlo.
Dopo molti anni, con tanta polvere posata sulle spalle e tanta vita passata sopra, ho ripreso in mano i classici e sono tornato al mio autore preferito. Sembra che il tempo non sia passato. Purtroppo non è così e, se da un lato certe sensazioni che provavo allora sono molto simili, certamente l'età mi aiuta a cogliere di più e meglio.
Come allora non posso non provare un piacere interiore nel rileggere l'Ode in cui il mar Tirreno si "affatica" contro gli scogli e non posso evitare di farmi trasportare troppo lontano ed in effetti mi piace farmi trasportare. Come allora penso all'"inviso cipresso", triste, ma anche dolce riflessione.
Il mio pensiero però corre sempre alla undicesima epistola del primo Libro. Le epistole sono dell'Orazio
ormai maturo e quindi racchiudono inevitabilmente la sua filosofia della vita. Secondo i critici non raggiungono le vette liriche delle Odi, la loro perfezione stlistico-lessicale e non ne hanno neppure la musicalità e rotondità semantica. Sarà vero sicuramente, ma per me l'Epistola a Bullazio contiene alcuni concetti fondamentali in cui mi sono specchiato in gran parte della mia vita; mi pare di rivedere me stesso, perfettamente declinato ed esamnato ai raggi x.
Allora crtamente non lo sapevo e non lo potevo sapere, ma penso sia per questo che l'ho sempre portata con me e mi ci sono sempre ritrovato, nel bene e nel male. Ritengo che ognuno di noi trovi, nel corso del proprio cammino, degli indizi, dei dati allora insignificanti, ma che poi ritornano nel presente e ti permettono di ricollegarti al tuo passato remoto.
Sia come sia, Orazio/Bullazio, non sfuggendo l'autore al vezzo di inventare un alter ego cui rivolgersi che altri non è chi scrive, pone sul tappeto una meravigliosa e, per me, drammatica questione.
" Caelum, non animum mutant, qui trans mare currunt " A mio parere un verso tra i più belli e non solo di Orazio. Racchiude alcuni concetti infiniti come il cielo, il mare e l'animo umano e li contrappone inevitabilmente, inducendoci ad una riflessione che, per quanto mi riguarda, mi schiaccia con il suo peso.
Mi spiace confessarlo, ma questo concetto lo sento mio, napoleonicamente e presuntuosamente mio. Tutta la mia vita è stata contrassegnata dal non essere mai a mio agio in nessun posto e dal cercare disperatamente un luogo, fisico e mentale, dove posarmi. Non ci sono mai riuscito e penso che oramai non ci riuscirò più.
Mi manca una condizione d'animo facilmente classificabile e definibile: l'animo equilibrato ed equidistante dagli eccessi delle passioni; in poche parole non ho l'"animus aequus". Mi consola sapere che la mia condizione fosse ampiamente condivisa da Orazio che si definiva, in un'altra Epistola, "ventosus", instabile e volubile come il vento e non trovava luogo ove appagare la sua frenesia cinetica.
Quanto espresso dal Nostro viene da lontano, da Socrate, e va lontano. Seneca, anch'egli nelle Lettere, riprende il concetto con un lapidario "Tecum sunt quae fugis"; Marco Aurelio parla di ricerca all'interno di noi stessi per risolvere i nostri problemi; il Boileau ci dice che la tranquillità interiore non ci farebbe distinguere la differenza tra Cuzco e Parigi; l'ultima notte dell'Innominato manzoniano è turbata dal pensiero che "lui" sarebbe stato sempre con sé.
Le giovani ragazze della buona borghesia americana degli anni Trenta, innamorate sconvenientemente per ceto e censo, erano prontamente spedite in lunghe crociere in Europa, al fine di dimenticare ed essere dimenticate. Chi non ricorda la splendida Sabrina di Audrey Hepburn, in partenza per Parigi a bordo del Normandie?
E' curioso notare che sia Orazio che Seneca usino sì - ovviamente - due verbi di moto, ma che questi due verbi contengano ambedue un moto accelerato e rapido, a significare il vano tentativo di "fuggire"
un'inquietudine in maniera disordinata ed irrazionale.
Non vi è soluzione, chi non possiede la tranquillità interiore è destinato a girovagare fisicamente ed anche mentalmente senza trovare pace alla "strenua inertia". Chi invece si trova nella felice condizione opposta, vivrà bene anche ad Ulubre, sperduto agglomerato dell'agro Pontino, ricordato da Cicerone ai familiari per....le ranocchie.
Potrei e forse vorrei andare oltre, ma mi fermo.....per decenza!
A proposito, che c'entra Orazio?
Quella famosa mattina di novembre mi teneva compagnia, in treno, con questa Epistola. Sapevo di dovere essere interrogato la settimana seguente e la spedizione fiorentina non mi poneva giustamente in una posizione preferenziale agli occhi dei" terribili" professori di allora.
Nessun commento:
Posta un commento