Come tutti gli appassionati del settore, credo di avere assaggiato una notevole quantità di vini, da quando ho iniziato a fare parte di questa schiera di......eletti. Ovviamente ho i miei gusti, le mie preferenze, le mie tipologie. Mi sono creato un piccolo archivio gustativo-mentale ed oramai mi discosto difficilmente da quello e dalla strada tracciata e consolidata. Sono, a torto o a ragione, un conservatore per cui difficilmente mi apro a novità dell'ultima ora anche perché ritengo che il mondo del vino sia regolato e governato da determinate regole. Il terroir, i vitigni, la vinificazione e gli affinamenti sono in pratica quelli e quelli restano, pur con il passare delle mode e dei tempi. L'uso massiccio del legno piccolo ha infine contribuito ad un livellamento del vino, livellamento che ha forse danneggiato il prodotto di qualità ed ha favorito chi stava nel medio, snaturando in parte
concetti evolutivi e tecniche enologiche vecchi di secoli.
Per quanto mi riguarda, come dicevo, mi sono costruito il mio personale piccolo "harem" del vino ed ormai mi muovo in quello, senza grandi sortite che - riconosco - a volte sarebbero doverose e salutari.
Mi piacerebbe però, a proposito di sortite, lanciarmi verso un vino particolare che inseguo. inutilmente, da qualche anno: il Vin de Constance, un vino da dessert dell'emisfero australe, forse il migliore ed il più raro. Nasce nella seconda metà del '600 in Sud Africa, nella zona di Città del Capo, prodotto dalla tenuta Klein Constantia che ha i propri vigneti proprio nella zona pianeggiante sotto la Table Mountain. I cloni sono quelli del moscato, presente un po' dappertutto nelle sue svariate declinazioni, del muscat de Frontignan, proveniente dal sud-ovest della Francia. Ebbe, nel Settecento e nell'Ottocento, grande fortuna in Europa, limitatamente ovviamente a quei pochi che se lo potevano permettere, e per motivi economici, e per zone e Paesi di influenza culturale e di collegamenti che poteva avere l'Olanda del tempo.
Come il Porto ed il Madeira, veniva bevuto solo a certe tavole. Anche se è ormai appurato che Napoleone sia morto di un cancro allo stomaco, alcune leggende vorrebbero che il veleno che lo portò alla morte fosse stato diluito in un bicchiere di Vin de Constance.
Alla fine dell'Ottocento, la fortuna e la vita di questo vino vengono annientati dalla fillossera. Per circa un secolo del vino non c'è più traccia, sino a quando - verso la fine del Novecento - l'azienda viene acquistata da Duggie Jooste che la fa letteralmente rinascere a nuova vita e, nei circa 70 ettari vitati, viene reimpiantato anche il moscato. Con un lavoro meticoloso e paziente si fa il possibile per ricreare le condizioni ottimali che hanno poi permesso al Vin de Constance di essere nuovamente presente, seppure limitatamente a certi mercati e con quantità irrisorie, rispetto alle richieste.
Risulterebbe avere colore giallo oro, dolcezza equilibrata dall'acidità, con la menta ed il limone che testimoniano del clima
marittimo e temperato della zona di produzione. Particolare da non sottovalutare risulta il non essere necessariamente e sempre botritizzato, discostandosi in questo radicalmente dai Sauternes. Quattro anni di barrique concorrono a completare il quadro e ad alimentare la mia curiosità.
Pare sia commercializzato prevalentemente negli Stati Uniti e nell'Europa del Nord. Non è certamente un caso che la sola degustazione verticale di questo vino in Italia si sia tenuta all'Azienda Querciabella di Greve in Chianti, presenti Tachis e Veronelli ! Certo, non sono più i tempi in cui, alla metà dell'Ottocento, ai tavoli del mitico ristorante parigino del Palais- Royal, i "Trois Frères Provencaux" si poteva ordinare una mezza bottiglia di Vin de Constance a 12 franchi, ma chissà che non mi riesca prima o poi di "agguantarne " una bottiglia e chiudere forse il cerchio, soddisfacendo una delle mie ultime curiosità enologiche.
domenica 30 gennaio 2011
Un po' di "latinorum"
In famiglia venivo e vengo spesso rimproverato per parlare troppo, per essere eccessivamente prolisso e bizantino nelle mie elucubrazioni mentali e verbali. Sono convinto che abbiano ragione, anche se non riesco a porre rimedio a questo mio difetto che mi aliena sicuramente qualche simpatia e che allontana, seppur simpaticamente, le persone da me.
Ma tant'è.
Parto effettivamente da lontano per cercare di portare avanti un concetto ed un ragionamento che mi stanno a cuore. Spero almeno di arrivare alla fine.
Quel grande storico francese del secolo scorso, Fernand Braudel, sosteneva, non ricordo in quale dei suoi numerosi saggi, che in qualche misura siamo tutti figli dell'Ellade. Volendo con ciò dimostrare una certa discendenza e dipendenza culturale in senso lato del mondo occidentale dalla Grecia, per quanto ha rappresentato, per quello che è stata. Penso alludesse, tra l'altro, al fatto che in Grecia è nata la democrazia, che la filosofia, l'arte, la storiografia, la poesia ed altre manifestazioni dell'animo dell'uomo sono germogliate in quella terra. Tutto quanto è venuto dopo è in parte figlio spirituale della Grecia, ha usato quei mattoni per costruirsi la propria casa, diversa dalla prima, ma con sostanziali elementi in comune.
Ricalcando però concetti già espressi da altri, mi parrebbe giusto e doveroso aggiungere che l'Occidente è sì un'emanazione della cultura e civiltà greche, ma che ha un altro pilastro su cui si regge e mi riferisco a Roma ed a quanto
ha rappresentato ed in parte ancora fiocamente rappresenta in merito allo sviluppo socio-culturale del mondo in cui viviamo. Il Cristianesimo, infine, elemento catalizzatore e terreno di coltura, mi pare sia il terzo pilastro, in mancanza del quale non sarebbe stato possibile percorrere un certo cammino.
Roma e la cultura romana hanno sempre sofferto di un complesso di inferiorità nei confronti della Grecia. Non c'era giovane di buona famiglia che non ritenesse doveroso completare la propria formazione culturale in Grecia, tutta la letteratura romana trae spunto dai lirici greci. Non vorrei qui dilungarmi in una inutile "guerra" tra Roma ed Atene, non vorrei alludere al pragmatismo romano, a quanto Roma ci ha lasciato in campo amministrativo, giuridico ed architettonico, alle differenze sostanziali tra le città greche chiuse in sé stesse e l'apertura del mondo romano.
Vorrei però difendere, per quanto in mio potere, il latino, il tanto bistrattato latino, odiato e temuto nelle scuole, considerato ormai lingua morta ed inutile. Ricordo i miei lontani anni del Liceo: anch'io non sfuggivo alla regola; avevo paura del latino, mi sembrava una cosa inutile, una perdita di tempo. Con il passare del tempo - tanto - ho ripreso in mano qualche vecchio testo scolastico ed ho iniziato un percorso che mi ha condotto ad una piacevole riconsiderazione di quanto pensavo. Piano piano ho riletto qualcosa di quegli autori che allora mi sembravano marziani, ho imparato ad apprezzarli e ad amarli.
Chi non conosce il mondo classico, ed in questo caso il mondo di Roma, ha una visione monca delle eterne problematiche della vita, dei meccanismi che regolano quell'entità assurdamente meravigliosa che è l'animo umano. Chi non ha letto la letteratura latina e la poesia latina, forse non lo sa, ma manca di qualcosa ed ha conseguentemente una visione più ristretta del mondo che lo circonda ed in cui vive. Mi piace ricordare un grande traduttore di autori latini, Luca Canali, il quale afferma in una sua opera che "...fra un ingegnere intelligente che ha letto Lucrezio e Petronio (e magari anche Proust e Joyce) e un ingegnere ugualmente intelligente che non li ha letti, costruirà migliori ponti e strade il primo."
Anche sul piano lessico-grammaticale il latino ha sempre subito veri attacchi. Leggendo i classici e proseguendo nel tempo, si notano già digressioni e notevoli licenze rispetto all'impianto grammticale latino, di per sé molto rigido ed equilibrato.
Il nostro stesso italiano che del latino è un'ovvia emanazione, lo ha logicamente ed inevitabilmente stravolto, come ci insegna una qualsiasi grammatica storica della nostra lingua. La tradizione popolare ha curiosamente "tradotto" in italiano preghiere e formule in maniera non aderente al testo ed al significato primari. "Agnus Dei, qui tollis peccata mundi" è stato ad esempio forzatamente trasformato in "Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo", travalicando il vero significato di tollis, che sarebbe poi porti sopra di te, ti fai carico.
Perché dobbiamo continuamente sentire mal pronunciato il nominativo neutro plurale dell'aggettivo medius, che sta nel mezzo, quando si vuole alludere ai mezzi di informazione quali la stampa scritta e parlata?
Perché iunior, comparativo di iuvenis, deve essere pronunciato e scritto all'inglese ed uguale sorte deve toccare a senior, semplice comparativo di senex?
Gli scambi ed i prestiti tra le varie lingue ci sono sempre stati e sempre ci saranno, ma il latino è una lingua morta, non può più difendersi. Lasciamolo almeno dormire in pace, se non vogliamo o non possiamo apprezzarne e gustarne l'eleganza, la musicalità e la perfezione.
Ma tant'è.
Parto effettivamente da lontano per cercare di portare avanti un concetto ed un ragionamento che mi stanno a cuore. Spero almeno di arrivare alla fine.
Quel grande storico francese del secolo scorso, Fernand Braudel, sosteneva, non ricordo in quale dei suoi numerosi saggi, che in qualche misura siamo tutti figli dell'Ellade. Volendo con ciò dimostrare una certa discendenza e dipendenza culturale in senso lato del mondo occidentale dalla Grecia, per quanto ha rappresentato, per quello che è stata. Penso alludesse, tra l'altro, al fatto che in Grecia è nata la democrazia, che la filosofia, l'arte, la storiografia, la poesia ed altre manifestazioni dell'animo dell'uomo sono germogliate in quella terra. Tutto quanto è venuto dopo è in parte figlio spirituale della Grecia, ha usato quei mattoni per costruirsi la propria casa, diversa dalla prima, ma con sostanziali elementi in comune.
Ricalcando però concetti già espressi da altri, mi parrebbe giusto e doveroso aggiungere che l'Occidente è sì un'emanazione della cultura e civiltà greche, ma che ha un altro pilastro su cui si regge e mi riferisco a Roma ed a quanto
ha rappresentato ed in parte ancora fiocamente rappresenta in merito allo sviluppo socio-culturale del mondo in cui viviamo. Il Cristianesimo, infine, elemento catalizzatore e terreno di coltura, mi pare sia il terzo pilastro, in mancanza del quale non sarebbe stato possibile percorrere un certo cammino.
Roma e la cultura romana hanno sempre sofferto di un complesso di inferiorità nei confronti della Grecia. Non c'era giovane di buona famiglia che non ritenesse doveroso completare la propria formazione culturale in Grecia, tutta la letteratura romana trae spunto dai lirici greci. Non vorrei qui dilungarmi in una inutile "guerra" tra Roma ed Atene, non vorrei alludere al pragmatismo romano, a quanto Roma ci ha lasciato in campo amministrativo, giuridico ed architettonico, alle differenze sostanziali tra le città greche chiuse in sé stesse e l'apertura del mondo romano.
Vorrei però difendere, per quanto in mio potere, il latino, il tanto bistrattato latino, odiato e temuto nelle scuole, considerato ormai lingua morta ed inutile. Ricordo i miei lontani anni del Liceo: anch'io non sfuggivo alla regola; avevo paura del latino, mi sembrava una cosa inutile, una perdita di tempo. Con il passare del tempo - tanto - ho ripreso in mano qualche vecchio testo scolastico ed ho iniziato un percorso che mi ha condotto ad una piacevole riconsiderazione di quanto pensavo. Piano piano ho riletto qualcosa di quegli autori che allora mi sembravano marziani, ho imparato ad apprezzarli e ad amarli.
Chi non conosce il mondo classico, ed in questo caso il mondo di Roma, ha una visione monca delle eterne problematiche della vita, dei meccanismi che regolano quell'entità assurdamente meravigliosa che è l'animo umano. Chi non ha letto la letteratura latina e la poesia latina, forse non lo sa, ma manca di qualcosa ed ha conseguentemente una visione più ristretta del mondo che lo circonda ed in cui vive. Mi piace ricordare un grande traduttore di autori latini, Luca Canali, il quale afferma in una sua opera che "...fra un ingegnere intelligente che ha letto Lucrezio e Petronio (e magari anche Proust e Joyce) e un ingegnere ugualmente intelligente che non li ha letti, costruirà migliori ponti e strade il primo."
Anche sul piano lessico-grammaticale il latino ha sempre subito veri attacchi. Leggendo i classici e proseguendo nel tempo, si notano già digressioni e notevoli licenze rispetto all'impianto grammticale latino, di per sé molto rigido ed equilibrato.
Il nostro stesso italiano che del latino è un'ovvia emanazione, lo ha logicamente ed inevitabilmente stravolto, come ci insegna una qualsiasi grammatica storica della nostra lingua. La tradizione popolare ha curiosamente "tradotto" in italiano preghiere e formule in maniera non aderente al testo ed al significato primari. "Agnus Dei, qui tollis peccata mundi" è stato ad esempio forzatamente trasformato in "Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo", travalicando il vero significato di tollis, che sarebbe poi porti sopra di te, ti fai carico.
Perché dobbiamo continuamente sentire mal pronunciato il nominativo neutro plurale dell'aggettivo medius, che sta nel mezzo, quando si vuole alludere ai mezzi di informazione quali la stampa scritta e parlata?
Perché iunior, comparativo di iuvenis, deve essere pronunciato e scritto all'inglese ed uguale sorte deve toccare a senior, semplice comparativo di senex?
Gli scambi ed i prestiti tra le varie lingue ci sono sempre stati e sempre ci saranno, ma il latino è una lingua morta, non può più difendersi. Lasciamolo almeno dormire in pace, se non vogliamo o non possiamo apprezzarne e gustarne l'eleganza, la musicalità e la perfezione.
Bere una buona bottiglia di vino...
Bere una buona bottiglia di vino. Non vorrei apparire presuntuoso, ma l'operazione che noi tutti compiamo quando affidiamo ai nostri sensi l'analisi e la valutazione di quel meraviglioso prodotto dell'uva che è il vino, quando lo facciamo-dicevo-siamo arrivati all'ultima tappa di un lungo percorso propedeutico. In altre parole, ho sempre pensato che la fase della degustazione debba necessariamente essere preceduta da un lungo e meditato percorso di studio e di ricerca, in relazione al prodotto finale.
Veronelli, un grande, diceva che il vino si beve PRIMA con gli occhi. A mio parere aveva pienamente ragione ed io aggiungerei che sono molte altre le componenti che aiutano a bere BENE un vino. Ovviamente non si può prescindere dal produttore, su cui si dovrebbero acquisire quante più informazioni possibili; non tralascerei sicuramente l'etichetta del vino
stesso, la capsula, la bottiglia utilizzata e-non sicuramente ultimo elemento-il nome del vino.
Queste mie sgangherate teorie nascono anche, in parte, dall'avere letto tanto ed in maniera abbastanza approfondita, sul mondo che circonda ed avvolge il vino, un mondo che va saputo interpretare e che volutamente spesso nasconde elementi essenziali alla conoscenza.
Veronelli è stato il primo, insieme a Mario Soldati, ad occuparsi in maniera sistematica, dell'enogastronomia italiana e non, sin dagli ormai lontani anni 50. Viveva, Veronelli, in quello scrigno architettonico che è Bergamo Alta; era circondato dalla bellezza alla sua massima espressione, aveva una profonda cultura umanistica unita ad una sana ironia e ad un gusto della vita che gli permettevano di affrontare con delicatezza e leggerezza quanto si era proposto di fare. E lo faceva bene: le sue non erano semplici ed aride recensioni enologiche, ma piuttosto considerazioni filosofiche, sociologiche ed antropologiche nelle quali il prodotto vino sembrava avere un'importanza del tutto secondaria.
Non amo quindi i vari Parker o Wine Spectator che, con tipico approccio "yankee" si limitano a classificare i vini inserendoli
e restringendoli in fredde graduatorie e classifiche, secondo punteggi del tutto opinabili. Il primo ha scritto, tra l'altro, monumentali tomi sui vini del Bordolese, ma non trovo in queste descrizioni quello che vorrei, oltre ovviamente una precisa e rigorosa descrizione analitica del vino. Il secondo terrorizza il mondo internazionale con le graduatorie, soprattutto quelle di fine anno, con i top ten e, finalmente, con il miglior vino del mondo. Come si può assegnare un "titolo" del genere, prescindendo da tutta una serie di considerazioni, valutazioni e conoscenze dirette di un numero davvero grande di elementi? Mah.
Venendo ora ai produttori, agli uomini, al loro cuore, al loro sentire ed al loro interfacciarsi con quanto li circonda quotidianamente, penso all'architetto Salvatore Geraci e me lo immagino camminare tra le vigne di nerello mascalese in una tiepida mattina primaverile, sulle colline sovrastanti Messina e lo Stretto, in completo di lino bianco e panama. Si deve a lui, in gran parte, la rinascita di un vino ormai quasi dimentiacato. Il Faro Palari, a mio parere il meno siciliano dei vini di quella stupenda terra; penso che in comparazioni mascherate nulla avrebbe a che invidiare ad un bordolese. Come si può capire questo vino davvero superbo, prescindendo da quanto sopra e da tanto altro?
Il mitico Trebbiano di Edoardo Valentini e ora del figlio. Un vitigno da sempre ritenuto di "appoggio" osmotico ad altri vitigni, con Valentini padre è diventato un monumento, una colonna portante dell'enologia nazionale. Ma Valentini era un vero "contadino" del vino, un uomo che non ha mai ceduto a facili compromessi, duro ed inflessibilmente sano come la sua terra d'Abruzzo.
E che dire di Gravner? Già dal suo modo di vestire, di camminare, di muoversi, si comprende perché produca-lui solo-quei vini veramente unici. Dopo varie sperimentazioni, alcune delle quali discutibili, ha stupito ed emozionato con le sue anfore, con i suoi invecchiamenti eccezionalmente lunghi sui bianchi. Ovviamente non lo conosco, ma penso a come possa avere reagito, nel corso degli anni, a talune critiche davvero pesanti mosse ai suoi vini. I suoi vini sono asciutti, decisi, essenziali. Lui è deciso, secco, asciutto ed essenziale.
Veronelli, un grande, diceva che il vino si beve PRIMA con gli occhi. A mio parere aveva pienamente ragione ed io aggiungerei che sono molte altre le componenti che aiutano a bere BENE un vino. Ovviamente non si può prescindere dal produttore, su cui si dovrebbero acquisire quante più informazioni possibili; non tralascerei sicuramente l'etichetta del vino
stesso, la capsula, la bottiglia utilizzata e-non sicuramente ultimo elemento-il nome del vino.
Queste mie sgangherate teorie nascono anche, in parte, dall'avere letto tanto ed in maniera abbastanza approfondita, sul mondo che circonda ed avvolge il vino, un mondo che va saputo interpretare e che volutamente spesso nasconde elementi essenziali alla conoscenza.
Veronelli è stato il primo, insieme a Mario Soldati, ad occuparsi in maniera sistematica, dell'enogastronomia italiana e non, sin dagli ormai lontani anni 50. Viveva, Veronelli, in quello scrigno architettonico che è Bergamo Alta; era circondato dalla bellezza alla sua massima espressione, aveva una profonda cultura umanistica unita ad una sana ironia e ad un gusto della vita che gli permettevano di affrontare con delicatezza e leggerezza quanto si era proposto di fare. E lo faceva bene: le sue non erano semplici ed aride recensioni enologiche, ma piuttosto considerazioni filosofiche, sociologiche ed antropologiche nelle quali il prodotto vino sembrava avere un'importanza del tutto secondaria.
Non amo quindi i vari Parker o Wine Spectator che, con tipico approccio "yankee" si limitano a classificare i vini inserendoli
e restringendoli in fredde graduatorie e classifiche, secondo punteggi del tutto opinabili. Il primo ha scritto, tra l'altro, monumentali tomi sui vini del Bordolese, ma non trovo in queste descrizioni quello che vorrei, oltre ovviamente una precisa e rigorosa descrizione analitica del vino. Il secondo terrorizza il mondo internazionale con le graduatorie, soprattutto quelle di fine anno, con i top ten e, finalmente, con il miglior vino del mondo. Come si può assegnare un "titolo" del genere, prescindendo da tutta una serie di considerazioni, valutazioni e conoscenze dirette di un numero davvero grande di elementi? Mah.
Venendo ora ai produttori, agli uomini, al loro cuore, al loro sentire ed al loro interfacciarsi con quanto li circonda quotidianamente, penso all'architetto Salvatore Geraci e me lo immagino camminare tra le vigne di nerello mascalese in una tiepida mattina primaverile, sulle colline sovrastanti Messina e lo Stretto, in completo di lino bianco e panama. Si deve a lui, in gran parte, la rinascita di un vino ormai quasi dimentiacato. Il Faro Palari, a mio parere il meno siciliano dei vini di quella stupenda terra; penso che in comparazioni mascherate nulla avrebbe a che invidiare ad un bordolese. Come si può capire questo vino davvero superbo, prescindendo da quanto sopra e da tanto altro?
Il mitico Trebbiano di Edoardo Valentini e ora del figlio. Un vitigno da sempre ritenuto di "appoggio" osmotico ad altri vitigni, con Valentini padre è diventato un monumento, una colonna portante dell'enologia nazionale. Ma Valentini era un vero "contadino" del vino, un uomo che non ha mai ceduto a facili compromessi, duro ed inflessibilmente sano come la sua terra d'Abruzzo.
E che dire di Gravner? Già dal suo modo di vestire, di camminare, di muoversi, si comprende perché produca-lui solo-quei vini veramente unici. Dopo varie sperimentazioni, alcune delle quali discutibili, ha stupito ed emozionato con le sue anfore, con i suoi invecchiamenti eccezionalmente lunghi sui bianchi. Ovviamente non lo conosco, ma penso a come possa avere reagito, nel corso degli anni, a talune critiche davvero pesanti mosse ai suoi vini. I suoi vini sono asciutti, decisi, essenziali. Lui è deciso, secco, asciutto ed essenziale.
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