Il grande storico francese del secolo scorso, Fernand Braudel, era un
tenace sostenitore della teoria secondo la quale la storia è spesso
figlia della geografia, delle condizioni climatiche che caratterizzano
in maniera permanente alcune regioni del mondo. Sono anch'io convinto,
in linea generale, della validità di questa tesi.
Il "generale
inverno" ha fermato per due volte nella spazio di poco più di un secolo,
due potenze nemiche che tentavano di invadere la Russia attraverso le
sue sconfinate pianure, con risvolti e conseguenze inimmaginabili per il
futuro dell'Europa e forse del mondo.
La guera russo-giapponese
del 1905, conclusasi con la famosa battaglia di Tsushima e con la
sconfitta della flotta russa reduce da una meravigliosa ed assurdamente
romantica circumnavigazione dell'Africa, ebbe tra le sue cause
scatenanti la necessità per la Russia di avere un porto, alle sue
estremità orientali, alternativo a Vladivostok, inutilizzabile per parte
dell'anno a causa del gelo.
Nel 1453 Costantinopoli cadde in mano
ai Turchi ed ebbe fine il malandato Impero romano d'Oriente. Il fatto
di per sé non avrebbe un peso eccezionale se non fosse che, con la
caduta di Costantinopoli, si chiudeva la via delle spezie tracciata da
Marco Polo, venivano ad essere interrotti i floridi commerci con
l'Oriente. Venezia e Genova, le due Repubbliche marinare che avevano
intessuto rapporti considerevoli con quelle lontane e favoleggiate
regioni, si trovarono in forti difficoltà economiche. Genova
soprattutto, città marinara ma anche a forte vocazione mercantile, che
svolgeva commerci qualitativamente pregiati con l'Oriente, per mezzo
delle proprie navi che navigavano il Mar Nero sino alle estreme sponde
orientali, per poi affidarsi alle carovane dei mercanti,
Genova-dicevo-subì un contraccolpo notevole. La città nella quale era
nata la prima banca al mondo, il Banco di San Giorgio, la città che
fungeva da ponte commerciale tra il lontano Oriente e tutta l'Europa
centro-settentrionale con le proprie complesse ramificazioni, si trovava
ora a dovere interrompere tutto quanto aveva costruito nei decenni
precedenti, tutto quanto le aveva dato prosperità, forza e ricchezza.
Fu
a seguito quindi di un puro impedimento fisico-geografico,
dell'impossibilità di trovare una via alternativa che permettesse
l'interscambio con l'Oriente che il Mediterraneo nel suo complesso e
nella sua accezione più vasta si vide "costretto" a cercare un percorso
diverso per non perdere la propria supremazia, la propria
ricchezza...per non perdere la propria identità.
L'italianissimo
Colombo si trovò al momento giusto nel posto sbagliato e,
ragionevolmente certo della sfericità del globo, si convinse e convinse
Isabella di Spagna ed il recalcitrante Ferdinando ad intraprendere un
viaggio che lo avrebbe portato dove lo ha portato e....ad essere
probabilmente sepolto alcuni metri sotto una sala da biliardo di un bar
di Valladolid. Lo fecero forse viaggiare più da morto che da vivo!
Ma questa è un'altra storia e mi accorgo di divagare.
Intendevo
solamente dare il mio pieno e modesto appoggio alla teoria di Braudel.
Se non fosse stato per le spezie forse l'America sarebbe rimasta ancora
per un po' a sonnecchiare nel suo isolamento forzato, gli spagnoli ed i
portoghesi non se la sarebbero "divisa" a Tordesillas, nel nome di
Cristo non si sarebbero ammazzati tanti inermi e un po' di oro, più o
meno oro, sarebbe rimasto al proprio posto.
Molto più
privatamente, se non fosse stato per il vecchio Colombo, l'America del
Sud non sarebbe entrata così prepotentemente nella mia vita.
Ci sono, a mio parere, varie tipologie di sudamericani, sul piano antropologico, sociologico e culturale.
Da
un lato abbiamo gli argentini che sono e si sentono i primi della
classe, forse anche per la consistente iniezione di sangue europeo a
seguito delle immigrazioni dei primi anni del '900. Dal lato opposto
abbiamo le popolazioni andine dell'Ecuador, della Bolivia, del Perù. Si
sono dovute adattare morfologicamente alle altezze assurde alle quali
vivono: sono generalmente non molto alti, forse per aiutare il cuore a
pompare il sangue a distanze minori! Sono ragionevolmente le più
"indigene" e le più lontane dall'Europa, nel pieno rispetto ovviamente
delle loro identità culturali.
C'è poi una popolazione, a me sino a pochi anni addietro, sconosciuta ed ora a me cara, per certi aspetti.
La
Colombia ed i colombiani. Mi pare si possano auto-collocare in una
posizione intermedia tra le due cui accennavo sopra e che sfuggano
pertanto ad una definizione precisa. La Colombia potrebbe per certi
versi essere accostata all'Italia del dopoguerra, della fine degli anni
cinquanta, degli anni del boom economico, con la meravigliosa voglia di
vivere di allora, con quel modo di fare un po' naif che ci ha aiutato a
risorgere,con quel rispetto delle regole che ci ha restituito la nostra
dignità. La Colombia di oggi è un Paese nel quale si fanno i biglietti
sugli autobus e nel quale ci si alza per fare sedere gli anziani, un
Paese nel quale non ci si meraviglia di certi comportamenti che da noi
inducono ad un sorriso di compatimento.
Non è certo un Paradiso,
vive sotto l'ombrello americano da cui ha mediato pregi e difetti, ha un
Pil in crescita, una buona inflazione annua, un brutto biglietto da
visita relativamente al suo passato-presente in merito alla sua
produzione e commercializzazione della famigerata polvere bianca.
Insomma, partendo da dove è partita, non può e non deve fare altro che
crescere.
Certo che è un altro mondo. Ma anche qui divago e torno su argomenti già trattati.
Mi
preme sottolineare invece un fatto, del tutto normale, che accomuna la
Colombia a tanti altri Paesi. Bogotà è geograficamente a quattro gradi
di latitudine nord rispetto all'equatore; il che fa sì che in Colombia
non ci siano le stagioni o perlomeno che non ci siano per come lo
intendiamo alle nostre latitudini. Pur essendo la capitale posizionata a
2.600 metri di altezza sulla cordigliera orientale, il clima è mite,
direi primaverile, con escursioni termiche giornaliere contenute, ma
minime su base annua.
A prima vista ed in occasione della prima
visita in Colombia, ritenevo, come tanti, che la mancanza di stagioni
fosse un enorme vantaggio sotto tutti i punti di vista ed effettivamente
i vantaggi sul piano materiale sono molteplici ed innegabili, almeno
per noi mediterranei. Con il passare del tempo e ragionandoci su in
maniera meno superficiale mi sono però accorto che sbagliavo ed ho fatto
e tratto le mie considerazioni in merito, sempre ovviamente non
prescindendo dalle mie radici culturali e dai miei condizionamenti.
Mi
rifaccio ad elementi di buon senso comune, direi casareccio. La terra è
rotonda, il cerchio di Giotto è segno di perfezione, tutto quanto ci
circonda e regola la nostra vita, a tutti i livelli, obbedisce a leggi
che hanno nella circolarità e ripetitività la loro base. Ogni cosa ha un
principio, un suo ciclo vitale più o meno lungo, ed una fine, sempre
nel rispetto di regole circolari, eterne ed immutabili. Ad ogni tramonto
seguirà un'alba illuminata da un sole sempre diverso e sempre uguale,
ad ogni estate con i suoi eccessi termici succederà un inverno che ce la
farà rimpiangere, ma che svolgerà la propria funzione sia sul piano
meteorologico che nei confronti ed a favore del nostro equilibrio
psichico. Alle nostre latitudini siamo abituati al continuo cambiamento
della natura che ci circonda, cambiamento che ha sicuramente un effetto
benefico su di noi anche perché ci accompagna nel nostro cammino terreno
e ci aiuta a capire qualcosa di più in merito al mistero ed al senso
della vita. Non mi pare si debba scomodare la filosofia o l'antropologia
per arrivare a certe considerazioni che ritengo essere ovvie e valide
più o meno per tutti noi.
Ebbene, in Colombia non ci sono le
stagioni. Manca, sicuramente a me, ma non penso solo a me, tutto quanto
ho tentato di....dire, di trasmettere. Come si può vivere in un posto in
cui gli alberi sono sempre e tutti verdi, in cui il sole sorge e
tramonta sempre alla stessa ora, in cui la temperatura è sempre la
stessa, in cui tutto è sempre...sempre? Come può tutto ciò non avere
influssi negativi sull'animo umano che ha bisogno del brutto per
apprezzare il bello, del buio per godere della luce, di una fine per
sperare in un nuovo principio?
Mah! Eppure ci sono milioni di
colombiani che vivono felici e contenti e probabilmente non pensano mai
alla loro condizione e non si arrovellano in elucubrazioni cervellotiche
e sterili.
Certo è, per tornare sulla terra, che la
mancanza di stagioni porta da un danno... serio ed incontrovertibile: la
mancanza della coltivazione della vite e quindi la mancanza del vino.
La vitis vinifera, nelle sue espressioni più plebee quali la bonarda o
il lambrusco ed in quelle più nobili ed elevate quali lo chardonnay o il
pinot, ha bisogno e necessità di affrontare e di sconfiggere le
avversità meteorologiche connesse con le stagioni, per cui in Colombia
non c'è traccia di questa vecchia e meravigliosa pianta.
Ciò non
vuol dire che conseguentemente in Colombia non si beva vino. Certamente
non è questa la bevanda principale con la quale si pasteggia, ma i vini
argentini e cileni suppliscono egregiamente(? )alla mancanza di prodotti
autoctoni. Quello che ritengo manchi al colombiano medio è la cultura
del vino, sono i duemila anni che accompagnano noi italiani nella nostra
storia, permeata e bagnata a tutti i livelli dal vino, dal Falerno di
Orazio sino al Chianti del barone Ricasoli, dal vino debole e poco
longevo del medioevo, al Brunello di alcuni storici produttori, che ci
impone di misurarne la longevità in decadi.
Diciamo comunque la
verità: i colombiani non conoscono il vino e quindi... non sanno bere.
Mi è capitato spesso, anche in ristoranti di nome e di tradizione, di
vedere in bella mostra sui tavoli degli assurdi bicchieroni colmi di
succhi di frutta con cui si accompagnavano robusti piatti di carne.
Saranno perfetti sul piano salutistico e dietetico, ma sono realmente
improponibili e mi sono sempre chiesto come riescano a berli in gioia e
letizia. Penso non sia nel loro DNA stabilire un sano e corretto
rapporto con il vino, con i giusti abbinamenti e con la tempistica che
il buon bere richiede a chi si voglia accostare a quel mondo. Capita
sovente, al ristorante, che il gentile cameriere di turno si affretti a
chiedere cosa si voglia bere, prima ancora che i commensali abbiano
avuto il tempo di consultare il menu. Se mi sembrano esagerate certe
nostre esasperazioni in fatto di abbinamenti, seguendo a volte la smania
di protagonismo del sommelier, mi pare altrettanto sbagliato il non
volere affatto prendere in considerazione, seppure velocemente, quali
possano essere le scelte in merito alla bevanda con cui pasteggiare e
sul quando, come berla e perché.
Un capitolo a parte meriterebbero
i prezzi dei vini di qualità che, ripeto, esistono e tutto quanto
riguarda il percorso che viene fatto fare alla bottiglia sino al tavolo
ed il suo conseguente trattamento da parte del cameriere che dà l'idea
di maneggiare un qualcosa di estraneo a sé ed al suo quotidiano. Si
capisce da tanti piccoli particolari che il rapporto con l'elemento vino
è un qualcosa di artefatto, di forzoso, un qualcosa che lo costringe ad
entrare in un terreno irto di incognite e di difficoltà. Apparirò
pedante e noioso, ma mi pare normale quasi pretendere che determinate
bottiglie-almeno quelle- subiscano una sorte adeguata al loro prezzo ed
al rango ed al valore del vino in esse contenuto.
Uno sguardo
all'interno delle poche enoteche ed una scorsa negli spazi dedicati al
vino nei grandi supermercati, mi pare confermi l'andamento cui
accennavo. Gli scaffali sono stracolmi per la maggior parte di vini
cileni ed argentini, diligentemente divisi per tipologia e prezzo, in
questo rispondendo ad una forte azione protezionistica che connota i
mercati sudamericani. D'altra parte in questi due paesi troviamo alcuni
giganteschi produttori quali la cilena Concha y Toro e l'argentina
Penaflor che viaggiano intorno ai 150 milioni di bottiglie annue e che
hanno quindi una necessità fisiologica di vendere i loro prodotti
nell'immenso mercato potenziale del Sudamerica, prima di affidarsi ad
una difficile e problematica escursione in terra europea. Tra le varie
linee che le aziende propongono, si trovano vini di livello, venduti a
prezzi correnti e corretti rapportati alla qualità. Quanto ai vitigni,
mi pare di poter dire che sono il carmenère ed il malbec a fare la parte
del leone. Il vecchio carmenère, partito dall'Albania in epoca romana,
dopo duemila anni di travagliata storia ampelografica, valica l'oceano
insieme al classico bordolese malbec e si conquista nuova vita in
Sudamerica, dopo decenni di oblio e di scarso utilizzo in Europa. Non
mancano infine alcuni "classici" provenienti dalla Spagna, la
madrepatria per eccellenza, amata ed odiata. Niente di particolare,
rispetto alle potenzialità iberiche, ma anche la Spagna risente
probabilmente degli sbarramenti doganali, per cui i vini di livello
superiore non vengono trattati in quanto avrebbero dei prezzi
impossibili, tanto che sarebbero accessibili forse solamente a chi
troverebbe più conveniente acquistarli direttamente in loco, in
occasione del classico viaggio a Madrid.
Povera la nostra Italia
enologica! Il pochissimo vino presente è rappresentato da prodotti da
supermercato di seconda categoria. Vi è un' ignoranza pressoché totale
rispetto rispetto alla nostra realtà enologica (nel senso di assoluta e
totale non conoscenza di quello che accade nel Paese primo produttore di
vino al mondo, nel Paese che ha sopravanzato la Francia quanto a volumi
di vendita negli Stati Uniti). Probabilmente la responsabilità è da
ricercare anche nei nostri produttori che non hanno sufficienti
interessi ad essere realmente presenti su quel mercato. Comunque la
situazione è desolante.
Non mi rimane altro da dire che nella
maggior parte delle case colombiane è presente un robusto frullatore il
quale viene utilizzato regolarmente per trasformare in frullati le
enormi e variegate qualità di frutta che il mercato offre tutto l'anno.
Queste bevande, insieme alla loro gradevole e diffusissima birra, sono i
più forti antagonisti del vino e ne contrastano amabilmente la
diffusione quotidiana. Basti considerare che il mio piatto preferito,
con la straordinaria carne colombiana, è fortemente debitore all'impiego
della birra.
Non si può avere tutto nella vita, come dicevano gli anziani.